Dalle origini del gruppo con la rivoluzione iraniana del 1979, il suo coinvolgimento nella guerra civile libanese, le sue strategie politiche e militari e il suo ruolo nei conflitti regionali, tra cui la guerra con Israele del 2006 e il suo sostegno al regime di Assad in Siria, Hezbollah si è evoluto in un importante attore regionale e militare con complesse considerazioni strategiche. L’analisi di Matteo Bressan, docente Lumsa e analista Nato Defense College Foundation
La storia degli Hezbollah è contraddistinta, sin dalle origini derivanti dalla rivoluzione iraniana del 1979, dalla stesura di documenti politico-programmatici, comizi e video messaggi dei suoi leader, da ultimo l’attuale Segretario generale Hassan Nasrallah. Ripercorrendo la storia del Partito di Dio, costantemente sospesa tra integrazione politica e lotta armata in Libano e nella regione si può risalire al primo documento essenziale della storia degli Hezbollah, la cosiddetta “lettera aperta” del 1985 con la quale il movimento sciita libanese delinea la sua visione politico – militare all’interno della guerra civile libanese posizionando la sua azione nel solco della rivoluzione iraniana guidata dall’ayatollah Ruhollah Khomeini. Si tratta di un documento che identifica le motivazioni della “resistenza” e della lotta armata contro gli Stati Uniti, Francia e Israele, colpevoli di aver aggredito il popolo libanese con l’intento di istituire un protettorato americano sul Libano.
Dal punto di vista interno e delle dinamiche della guerra civile il bersaglio degli Hezbollah sono le Falangi di Bashir Gemayel, considerate forze conniventi dell’occupazione israeliana. Si tratta di un documento che, con la fine della guerra civile libanese e gli accordi di Taif nel 1989,verrà in parte superato dall’atteggiamento di Hezbollah di intraprendere – pur mantenendo la sua struttura militare – la pratica della vita politica libanese basata sulla democrazia concordata, frutto dell’intesa fra gruppi confessionali. È all’interno di questa particolare composizione del sistema politico e della partecipazione degli Hezbollah alla compagine governativa che il Libano si trova nel luglio del 2006 trascinato, per mano degli Hezbollah, nella “guerra dei 34 giorni” con Israele. Un conflitto in cui, a fronte dei bombardamenti e dei tentativi da parte delle Israel Defense Forcese (Idf) di penetrare in territorio libanese per colpire e distruggere le installazioni degli Hezbollah,i miliziani del Partito di Dio riescono a lanciare contro il territorio israeliano circa 4.000 razzi.
Aspetto, quest’ultimo, che insieme alle difficoltà e alle perdite delle stesse IDF, costituirà la base della “vittoria divina”, narrazione utilizzata da Hassan Nasrallah in grado di generare consenso politico in Libano così come nel mondo arabo, funzionale a veicolare il messaggio – caso unico nella storia del mondo arabo – di avere la forza e le capacità militari di contrastare le IDF. La capitalizzazione politica della guerra dei 34 giorni consente quindi agli Hezbollah di attenuare i contenuti massimalisti, presenti nella lettera aperta, attraverso la stesura del suo secondo manifesto politico del 2009 con il quale il movimento manifesta la volontà di diventare parte integrante – legittimando la “resistenza” armata contro Israele e gli Stati Uniti e quindi il mantenimento delle sue armi, in violazione della Risoluzione 1701 (2006) dell’Onu – della società libanese.L’ulteriore spartiacque della storia del Partito di Dio si concretizza con le rivolte in Siria del 2011 che vedono come bersaglio della protesta Bashar Al – Assad, anello essenziale dell’asse della resistenza insieme all’Iran. Diversamente dalle altre proteste in Libia ed Egitto, che ricevano forme di solidarietà da parte di Hezbollah, in Siria la scelta di campo non può che esser al fianco di Bashar Al Assad.
Una scelta che, almeno nel primo anno di conflitto siriano, vede la posizione degli Hezbollah fortemente criticata nel mondo arabo. La svolta militare, politica e comunicativa avviene nel maggio del 2013, allorquando Hezbollah forte anche di vere e proprie operazioni militari in territorio siriano giustifica pubblicamente la sua presenza in Siria al fianco delle truppe regolari siriane contro gli estremisti islamici che, qualora riuscissero a deporre Assad, andrebbero a minacciare la stessa sicurezza libanese. La narrazione, sostenuta in parte anche da alcuni partiti cristiano maroniti, insieme all’avvento di sigle qaediste e all’ascesa dello Stato Islamico in Siria ed Iraq, consente ad Hezbollah – anche grazie ad un compromesso tra i principali attori regionali – di capitalizzare il suo impegno militare, dispendioso anche in termini di perdite sul campo, con l’elezione del suo alleato cristiano maronita Michel Aoun alla Presidenza del Libano nel 2016.
È in questo contesto in cui le milizie degli Hezbollah così come la forza Al Quds guidata dal generale Qassem Suleimani, insieme alle forze russe giuntenel 2015, diventano sempre più rilevanti per la tenuta del regime di assadista, che la Siria si trasforma in un campo di battaglia parallelo e occulto tra Iran ed Israele, in cui quest’ultima ha cercato – senza quasi mai ufficializzarlo pubblicamente – di interdire, attraverso raid, trasferimenti di armi dall’Iran in Siria e in Libano ponendosi l’obiettivo di scongiurare che le alture del Golan potessero trasformarsi in qualcosa di molto simile al Sud del Libano.
La Siria rappresenta per gli Hezbollah sia per nuove capacità di combattimento in ambiente urbano acquisite sia per il coordinamento con le forze al Quds e le forze russe un salto di qualità del Partito di Dio che assume – pur nella sua dimensione non statuale – una postura di attore regionale e militare unico nel suo genere.
È da questa dinamica di rafforzamento degli Hezbollah insieme al ruolo delle milizie iraniane in Siria che si comprende come l’offensiva lanciata da Hamas lo scorso 7 ottobre rappresenti non soltanto un salto di qualità in termini di capacità militari ma anche lo scenario peggiore per la sicurezza di Israele. Non è un caso che l’atteso discorso di Nasrallah dello scorso 3 novembre abbia catalizzato l’attenzione degli attori regionali e della Comunità internazionale andando a conferire e a riconoscere agli Hezbollah uno status di potenza – seppure non statuale – senza precedenti nella storia. Nell’ora e mezza di video messaggio Nasrallah ha negato di esser a conoscenza della preparazione dell’operazione diluvio di Al-Aqsa definendola come il prodotto di una decisione palestinese. Un’operazione che ha rappresentato un terremoto per la sicurezza di Israele, dimostrando di essere“più fragile di una tela di ragno” e insicura senza l’aiuto statunitense. Al tempo stesso, nella negazione di un coinvolgimento in fase di pianificazione agli attacchi del 7 ottobre, Nasrallah ha voluto sfumare le responsabilità dell’Iran sostenendo che Teheran non avrebbe esercitato alcun ruolo di controllo sui gruppi della “resistenza”.
Di contro Nasrallah ha elogiato l’intervento delle milizie irachene e yemenite per aver aderito alla campagna contro Israele ribadendo come la vittoria dei palestinesi sia nell’interesse di tutti i paesi della regione e in particolar modo del Libano. Proprio l’appello, rivolto da Nasrallah sulla falsariga di quanto già chiesto dall’Iran ai paesi arabi, di tagliare le forniture di petrolio, gas e cibo a Israele rende ancor più evidente la profondità strategica dell’attuale fase conflittuale tra l’asse della resistenza e Israele. Nel chiarire il coinvolgimento di Hezbollah nel conflitto, Nasrallah ha dichiarato che a partire dall’8 ottobre la “resistenza islamica” in Libano è impegnata contro le forze israeliane.
Un impegno che è riscontrabile nell’aumento di lanci di razzi, missili e droni verso il territorio israeliano e che non ha precedenti dalla guerra del 2006. È questa capacità di impegnare le IDF al confine con il Libano che consente a Nasrallah di dimostrare il ruolo delle sue milizie, capaci di dirottare dal fronte di Gaza gli sforzi delle IDF e di obbligare – almeno entro i 5 km dal confine del Libano – la popolazione ebraica all’evacuazione.
L’opzione di un conflitto più ampio, con un ulteriore coinvolgimento degli Hezbollah resta possibile tanto che Nasrallah è arrivato a minacciare lo stesso dispiegamento navale statunitense – ad oggi due gruppi da battaglia nel Mediterraneo Orientale – nel caso in cui fosse messa in discussione la sovranità e la sicurezza del Libano. Gli Stati Uniti, nel discorso di Nasrallah, sono percepiti come i responsabilidel conflitto a Gaza e, di conseguenza, la decisione della Resistenza Islamica in Iraq di prendere di mira le basi statunitensi in Iraq e Siria è considerata una mossa saggia e coraggiosa.Nasrallah sostanzialmente non annuncia una estensione unilaterale del confronto ma lascia intendere – come più volte accaduto in passato di fronte a scontri avvenuti con le Idf soprattutto in Siria– che sarà lui a decidere quando e come estendere il conflitto, se necessario. Questo passaggio si presta ad almeno una duplice interpretazione: da un lato Nasrallah è consapevole dei rischi – resi plasticamente evidenti dalle capacità di deterrenzarappresentate dal dispiegamento navale statunitense – di intraprendere una guerra su larga scala.
Dall’altro Hezbollah può mantenere l’attuale livello di pressione nei confronti di Israele che, allo stato attuale, già rappresenta un’alterazione degli equilibri di sicurezza che sta mettendo Israele in una situazione insostenibile a ridosso del confine del Libano. Una sfida che, dopo aver completato la missione a Gaza, Israele dovrà affrontare per consentire ai circa 60.000 cittadini di tornare nella fascia di territorio evacuata e garantire loro la sicurezza. Questa seconda possibilità non esclude che Hezbollah voglia trascinare Israele in guerra – sulla falsariga di quanto accaduto nel 2006 – piuttosto che intraprendere un’offensiva unilaterale sul modello di Hamas, lo scorso 7 ottobre. Tale eventualità consentirebbe agli Hezbollah di non essere accusato – soprattutto da parte dell’opinione pubblica libanese – di aver iniziato la guerra. Ancora una volta, la legittimazione interna al Libano resta un elemento importante nelle scelte strategiche del Partito di Dio, sospeso tra l’integrazione nelle istituzioni libanesi, il ruolo di proxy iraniano e la lotta armata su scala regionale.