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Quell’ombra di Mosca dietro alle tensioni tra Belgrado e Pristina

L’influenza della Federazione Russa in Serbia ha lo scopo di stressare l’instabilità della regione, causando tensioni che portano giovamento solo a Mosca. Un articolo su Foreign Affairs affronta la questione a tutto tondo

Negli ultimi mesi, la “polveriera balcanica è tornata” a surriscaldarsi. A più di vent’anni dalla fine del conflitto che li ha visti scontrarsi militarmente, le tensioni tra Serbia e Kosovo hanno nuovamente raggiunto picchi pericolosamente alti.

È un altro potenziale fronte che tocca da vicinissimo l’Italia, e dove l’Europa è destinata a misurare le proprie capacità di muoversi politica estera, come ha ricordato ieri il presidente della commissione Esteri della Camera Giulio Tremonti, intervenendo a un evento organizzato al Centro Studi Americani in cui si discuteva delle “nuove strategia di politica internazionale in un mondo in cambiamento”. Per Tremonti, sono i Balcani il luogo in cui l’Europa si misura con le nuove sfide e dove si gioca buona parte del tema dell’integrazione.

Nel maggio di quest’anno, mentre i serbi del Kosovo si scontravano con le forze dell’ordine nel tentativo di impedire a tre neoeletti sindaci di etnia albanese di accedere agli edifici comunali (causando il ferimento di 30 soldati del contingente Nato presente in loco), Belgrado ammassava le truppe al confine con il Kosovo. Il mese successivo, l’Alleanza Atlantica ha annunciato il dispiegamento di 700 nuovi soldati a causa della situazione instabile sul terreno. A settembre le forze armate serbe si sono di nuovo schierate in massa (con cifre decisamente superiori rispetto a quanto avvenuto in maggio) ai confini con il Kosovo. “Una messa in scena senza precedenti di artiglieria, carri armati e unità di fanteria meccanizzata serba avanzata”, per usare le parole di un portavoce del National Security Council statunitense. Pochi giorni prima, 30 persone di etnia serba pesantemente armate hanno attaccato una pattuglia di polizia in Kosovo, causando quattro morti.

Queste tensioni sono figlie del loro tempo: non vi è dubbio che l’instabile sistema internazionale odierno faciliti il verificarsi di simili dinamiche. Anche per l’interesse di alcuni grandi attori di questo sistema. Come ad esempio la Russia, che più di tutti può trarre vantaggio da una crisi securitaria nella penisola balcanica, al centro dell’Europa. E che quindi ha tutto l’interesse ad alimentare l’entropia.

Forme e modi di come ciò avvenga sono state delineate in modo dettagliato da David R. Shedd, ex direttore ad interim dell’Agenzia di intelligence della Difesa statunitense, e da Ivana Stradner, research fellow della Foundation for Defense of Democracies, in un articolo pubblicato su Foreign Affairs. L’intervento di Mosca in Serbia si struttura su due assi, spiegano: rifornendo il paese balcanico di energia e di armamenti, e impiegando il proprio apparato di manipolazione mediatica per influenzare l’opinione pubblica così da rafforzare il sostegno per il presidente Aleksandar Vučić (espressione di quel nazionalismo serbo molto vicino alle posizioni culturali e politiche della Russia di Vladimir Putin) e da stressare la narrazione conflittuale, alimentando il caos nell’area.

I vantaggi che Mosca potrebbe trarre da un’eventuale escalation sono molteplici. Una situazione di crisi nella regione non solo screditerebbe la Nato, ma fornirebbe a Mosca spazi di manovra per assumere il ruolo di mediatore, dando così al Cremlino capacità di influenza sulle potenze occidentali oltre che sugli attori locali. Inoltre, nell’eventualità dello scoppio di un conflitto più o meno localizzato, l’Occidente sarebbe costretto a impiegare su questo fronte risorse che altrimenti avrebbero potuto essere destinate all’Ucraina. Ma nel contrasto tra Belgrado e Pristina la Russia vede anche un’opportunità di legittimare le proprie azioni, paragonando il Kosovo secessionista alla Crimea e al Donbass. Secondo una narrativa che la diplomazia russa porta avanti già dal 2008, quando Mosca riconobbe ufficialmente le repubbliche separatiste di Ossezia del Nord e Abcasia all’indomani del conflitto con la Georgia.

Di fronte a un simile scenario, l’Occidente non può restare passivo, sostengono i due autori. Esso deve anzi segnalare che non è disponibile a tollerare le dinamiche di escalation tanto care e a Mosca e a Belgrado, riducendo la cooperazione con la Serbia (che la sfrutta in modo marcatamente strumentale per perseguire il proprio interesse, il quale non include un vero avvicinamento all’Occidente), e condizionandola a determinati requisiti, come ad esempio l’adesione di Belgrado al regime di sanzioni imposte contro Mosca. Arrivando a imporre un regime di sanzioni anche nei confronti del piccolo stato slavo se la situazione lo necessiterà.

Allo stesso tempo è necessario contrastare l’apparato propagandistico russo attivo in Serbia, evidenziando come dietro ai glorificati legami panslavici e alle promesse di aiuto da Est si nasconda in realtà un nulla di fatto. Mosca non si mobiliterà a difendere Belgrado, così come non si è mobilitata per difendere l’Armenia nonostante le richieste d’aiuto mosse dal suo oramai quasi ex-alleato.

La questione è tanto urgente quanto cruciale. Lo scoppio di un’eventuale crisi tra Serbia e Kosovo non si limiterebbe certo a questi due stati, ma andrebbe a coinvolgere anche gli stati confinanti, secondo le tradizionali dinamiche della penisola. Ed alcuni segnali si possono già intravedere oggi.

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