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I Paesi arabi cercano un fronte comune sulla crisi israeliana

Da Riad, il mondo arabo-islamico cerca di gestire le criticità del conflitto tra Israele e Hamas, accontentando le masse, evitando azioni sbilanciate, assorbendo posizionamenti, interessi e narrazioni, e seguendo anche gli interessi dei grandi player internazionali

Il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman non solo è riuscito a riunire tutto il mondo musulmano a casa sua, ma ha anche ottenuto una dichiarazione congiunta firmata da 55 Paesi — tra Lega Araba e Organizzazione per la cooperazione islamica — che segna un punto importante per evitare l’allargamento regionale della guerra israeliana contro Hamas nella Striscia di Gaza. Ossia, il leader saudita ha ottenuto un risultato che piace anche a Stati Uniti, Unione Europea e Cina.

Certo, il successo è su carta, anche perché mentre capi di Stato e di governo si riunivano a Riad per un’eccezionale seduta congiunta delle due organizzazioni — e l’eccezione la dettava proprio la necessità di parlare dell’emergenza in corso — figure di rilievo come Hassan Nasrallah, guida spirituale del partito/milizia libanese Hezbollah, coglievano l’occasione per rilanciare la retorica aggressiva che lo fa sopravvivere. Attacco agli Stati Uniti come responsabili, in quanto protettori ultimi di Israele, della sofferenza dei palestinesi; e l’annuncio di voler continuare l’ingaggio miliare a bassa intensità sul confine settentrionale israeliano (e probabilmente contro le basi americane in Siria e Iraq). Niente di nuovo. Anche perché adesso il gruppo radicale sciita di Beirut dovrà tenere conto — oltre che delle complessità del contesto — di ciò che è stato detto a Riad prima di fare scelte avventate e aumentare il proprio coinvolgimento.

La dichiarazione di Riad è stata attentamente studiata per evitare che la posizione pro-Palestina dei firmatari finisse confusa per un’eccessiva ostilità a Israele. Non c’è una condanna esplicita al brutale attacco terroristi di Hamas — che ha insanguinato lo Shabbat del 7 ottobre e avviato la guerra — e nemmeno però menzioni di meccanismi di pressione per fermare Israele. Si chiede il cessate il fuoco, la fine dell’isolamento di Gaza (a cui sono stati tagliati acqua, elettricità, rifornimenti, carburante e quasi totalmente Internet). Tutto deve servire per evitare che le masse arabo-islamiche vivano con esasperazione contraddizioni e incoerenze tra le immagini di sofferenza dei civili della Striscia assediata da Israele e l’inazione dei loro Paesi. Obiettivo: controllare le piazze, evitare innanzitutto che l’ostilità contro Israele si trasformi in ostilità contro i vari governi arabo-islamici. Tutto controllando anche la strategia, perché per quei Paesi — Arabia Saudita in primis — quando la situazione rientrerà e la rabbia sarà sedimentata, tornerà a essere necessario dialogare con Gerusalemme per ri-normalizzare i rapporti.

Narrazioni e interessi 

Bin Salman ha dichiarato che il regno “ritiene le autorità di occupazione (israeliane) responsabili dei crimini commessi contro il popolo palestinese”, e ha fatto inserire nel comunicato finale un passaggio sui “disumani massacri” nella Striscia di Gaza chiedendo l’apertura di un’indagine per crimini di guerra contro Israele, respingendo “la legittimità della vendetta o dell’auto difesa” e denunciando “il doppio standard dell’applicazione della legge internazionale nei confronti di Israele” (notare che qui il riflesso proietta la situazione in Ucraina, dossier su cui quegli stessi Paesi hanno tenuto una linea distaccata).

Sono parole molto pensanti, ma vanno inserite in quel contesto di necessità, con le collettività arabe che sin dal 7 ottobre hanno reagito per istinto in posizione anti-israeliana (posizione che il procedere degli scontri non ha ammorbidito). La lingua inglese, che ha definizioni eccezionalmente efficaci, lo definisce “posturing”, più un atteggiarsi che una postura. Tanto che poi il leader saudita ha pressato per parlare di soluzione a due Stati, superando la linea della rabbia necessaria e incontrando la posizione dei suoi ospiti riguardo al futuro post-emergenza, ma anche quella dei grandi player internazionali.

Tra gli interlocutori di bin Salman, il più importante era Ebrahim Raisi, il presidente iraniano al suo primo viaggio in Arabia Saudita da quando i due Paesi hanno ricucito i rapporti a marzo con un colpo di opportunismo di Pechino. La visione della situazione di Riad e Teheran è piuttosto differente: i sauditi si augurano che tutto passi in fretta e si torni rapidamente al percorso di distensione regionale che si era avviato; gli iraniani si sono sempre sentiti marginalizzati da quel percorso — su cui anche gli americani, i nemici, avevano un ruolo, e con loro gli israeliani — e ritengono il caos del conflitto israeliano un’occasione per trovare nuovi spazi.

Al punto che c’è più di un sospetto che l’Iran possa aver in qualche modo avallato, o quanto meno approvato, l’azione di Hamas — che fa parte dell’Asse della Resistenza e dell’insieme di milizie regionali che i Pasdaran da tempo utilizzano come forma di pressione geopolitica anche contro quei processi di distensione. Per Raisi, l’unica soluzione al conflitto è uno Stato palestinese “dal fiume al mare”, che significa dal Giordano al Mediterraneo, ovvero l’eliminazione dello Stato di Israele, niente soluzione a due Stati, secondo una prospettiva storica della resistenza khomeinista e uno slogan diventato mainstream  in questi giorni, nelle manifestazioni anti-israeliane in giro per il mondo. Il presidente iraniano, anche per differenziare la sua posizione, ha invitato ad armare i palestinesi e sposare la loro rivolta, ha detto che andrebbero “baciate le mani di Hamas per la resistenza”, e chiesto ai Paesi islamici di designare l’esercito israeliano come “organizzazione terroristica” per la condotta a Gaza. Anche in questo caso, il teologo conservatore che guida la Repubblica teocratica iraniana deve tenere su certe barricate, perché soffre già da anni la pressione delle piazze contro l’oppressione del proprio regime, e non vuole rischiare di infiammare nuovamente la popolazione.

Necessità vulnerabili 

Inoltre, sulla scia di quanto successo a Pechino con la riapertura dei rapporti tra Riad e Teheran, l’Iran spererebbe che la guerra possa invertire quel processo di distensione che passa anche dalle grandi normalizzazione tra Israele — nemico esistenziale della teocrazia iraniana — e il mondo arabo. E magari potersi sostituire, ambizione che anche alcuni partner globali dell’Iran (come Cina e Russia) potrebbero nutrire nei confronti degli Stati Uniti.

Non sarà così con ogni probabilità, ma intanto Riad pensa a se stessa: i sauditi sperano che il fatto di non aver ancora normalizzato con Israele possa dare al regno un valore di forza, e il fatto di avere un canale con gli iraniani dia loro una certa protezione, perché si sentono vulnerabili. Non a caso, come tra le prime reazioni gli americani hanno aumentato la protezione aerea nel Golfo: mossa efficace visto che gli Houthi hanno anche loro deciso di approfittare del caos per lanciare messaggi guidati da missili balistici diretti contro Israele (e secanti il territorio saudita). D’altronde però, anche gli iraniani sperano che l’essere in contatto con i sauditi e il mantenimento di questo canale, dia protezione anche a loro — con gli americani che intendono preservare Riad e dunque anche i suoi interessi, gestendo il coinvolgimento iraniano via Hezbollah o via Houthi rispondendo puntualmente senza allargare il fronte.

Il contesto articolato che si sta creando ha aperto spazi. Il dialogo intra-islamico assume forme di opportunismo, come quella sposata da Turchia e Iran, due Paesi che vivono un delicato disequilibrio in questa fase storica (entrambi amici di Hamas, divisi sulla difesa azera e armena nel Caucaso, con diversi interessi in Siria e con problemi di coesistenza al confine). Ankara e Teheran hanno preso l’occasione di una sgangherata dichiarazione di un ministro israeliano appartenente alla corrente cananista del governo, il quale invocava la possibilità dell’uso di un’arma atomica per resettare la situazione nella Striscia. Per Iran e Turchia a questo punto l’Agenzia internazionale per l’energia atomica dovrebbe inserire Israele tra la lista dei Paesi da monitorare per prassi, perché ha dimostrato di poter contare su un’opzione miliare nucleare. È una posizione velenosa, perché smaschera la cosiddetta “ambiguità strategica” per cui Israele avrebbe armamenti atomici ma in modo non dichiarato; ambiguità utile anche per l’America finora. C’è una volontà di sfruttare la situazione per regolare vecchi rancori (turchi e iraniani e curare interessi diretti di entrambi), c’è l’idea di mettere in difficoltà non solo Israele ma anche i suoi protettori.

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