In uno studio dell’Ocse e della Commissione europea di prossima pubblicazione si parla di vuoti di imprenditoria che interessano i Paesi europei e che, se colmati, consentirebbero di far emergere 7,5 milioni di imprenditori aggiuntivi nell’Ue e 34 milioni nella più ampia area Ocse. Ma cosa serve per ridare slancio al declino dell’imprenditoria? L’analisi di Salvatore Zecchini
Dal lontano 2008 la vitalità del sistema imprenditoriale italiano segna un affievolimento, stando ai dati dell’Istat sulla demografia delle imprese. Il tasso di natalità anno dopo anno è stato sopravanzato da quello di mortalità, con una lieve inversione nel 2021. In parte è il prodotto di un modesto incremento della taglia media delle imprese, fenomeno che farebbe pensare a un lento processo di consolidamento del sistema verso dimensioni più adatte a reggere gli shock che si sono succeduti negli anni e quelli che verranno. La tendenza alla perdita di imprenditorialità è peraltro confermata da Unioncamere sulla base delle rilevazioni di Movimprese, malgrado queste offrano un’immagine contrastante con quella dell’Istat, in quanto mostrano un numero di iscrizioni superiore a quello delle cessazioni.
La pubblicazione odierna dei primi risultati del censimento delle imprese fuga da ultimo ogni dubbio sul graduale restringimento del sistema, che solo parzialmente è il risultato dell’impatto degli shock recenti possibilmente nel ripulirlo dalle unità meno competitive. I sostegni governativi accordati durante queste turbolenze, in realtà, hanno mirato a preservare l’esistente, piuttosto che promuovere il rinnovamento. Né il notevole aumento delle startup innovative nel 2021 (17,4%) altera questo quadro di fondo, considerato il loro peso marginale.
La tendenza al declino demografico dell’imprenditoria ha un’origine più lontana negli anni e va ricondotta all’evoluzione contrastata della crescita economica italiana fin dall’inizio del secolo e agli effetti degli shock che hanno colpito l’economia mondiale, innescando forze che tendono a modificare l’assetto economico interno e le relazioni economico-finanziarie tra Paesi, ovvero la divisione internazionale del lavoro.
Sta anche nella capacità generativa dell’imprenditoria affrontare le sfide dei cambiamenti in atto con l’uscita dalla produzione delle imprese meno competitive e la nascita di nuove che apportano innovazione, occupazione e maggiore benessere, se operano sullo sfondo della stabilità macroeconomica risultante dall’assenza di tensioni inflazionistiche e di squilibri nelle finanze pubbliche, col conseguente rischio di maggiore tassazione ed oneri finanziari. Le nuove imprese create su iniziativa del settore pubblico, invece, sono meno rilevanti nell’apportare il nuovo capace di generare ricchezza sia perché meno competitive del settore privato in fatto di innovazione e rinnovamento, sia in quanto meno soggette alla disciplina del competere sul mercato. Questi aspetti dovrebbero, quindi, indurre i governanti a considerare con attenzione le tendenze evidenziate dai dati dell’Istat e a trarne le conseguenze sul modo e sui mezzi per contribuire a una nuova vitalità dell’imprenditoria.
Tra il 2015 e il 2020 il tasso di ricambio (turnover) delle imprese, dopo un differenziale netto (tra nuove nate e cessate) negativo per 0,9 punti percentuali nel 2015, ha variato tra lo zero percento nel 2016 e lo 0,6% negativo del 2020, seguito da un ritorno in positivo per 0,6% nel 2021. La tendenza ha toccato i vari settori in misura differente, colpendo particolarmente l’industria e il commercio con un minimo nel 2020 per via della crisi pandemica. In stridente contrasto si pone la creazione netta di nuove imprese nel settore delle costruzioni, in cui da un equilibrio tra nuove e cessate nel 2019 si sale a un ricambio positivo al 2,4% nel 2021, probabile effetto del superbonus e dell’avvio delle opere del Pnrr. Ancor migliore l’andamento del settore degli “altri servizi”, che in tutto il periodo segna incrementi netti d’imprenditoria, quasi ad indicare una persistente tendenza alla terziarizzazione del tessuto produttivo.
Un debole turnover, invece, si ha tanto dal lato delle nuove imprese che da quello delle cessate, nel settore dell’industria in senso stretto, a gran differenza degli altri settori e segno di una maggiore stabilità imprenditoriale, oltre che di relativamente maggiori difficoltà ad entrare nel mercato, o uscirne. La resistenza delle imprese industriali è confermata dal tasso di sopravvivenza nel periodo dal 2016 al 2021: la percentuale di quelle nuove che sopravvivono dopo cinque anni è al 53,7%, nettamente superiore a quella degli altri settori che si attesta attorno al 45%. Altra conferma sul versante dell’occupazione: gli occupati nelle nuove nate nell’industria, che lo sono ancora dopo cinque anni, si riducono meno che negli altri settori (-44,5% contro oltre il 50%) e nel contempo si genera un’elevata creazione di nuovi posti di lavoro (+38%), maggiore che nelle costruzioni (+7%), mentre negli altri settori l’occupazione arretra.
Non sorprende nemmeno che nel complesso del sistema il tasso di ricambio risulti nel Mezzogiorno nettamente più alto che nel resto del Paese, in quanto le strutture imprenditoriali sono relativamente più deboli e l’ambiente economico più difficile e meno aperto alla concorrenza su basi competitive.
Il rallentamento nel dinamismo dell’imprenditoria ha notevole peso sul rinnovamento dell’economia e sul potenziale di crescita. Al declino demografico non sono sfuggite le imprese manifatturiere ad ogni livello di tecnologia, a differenza di quelle impegnate nei servizi tecnologici e di mercato ad alta intensità di conoscenza. In questi comparti la nuova imprenditoria ha più che compensato quella che cessava. Nel complesso delle imprese, nondimeno, si è ristretta la partecipazione di quelle che hanno investito in attività d’innovazione. Dal censimento dell’Istat emerge, in particolare, che la loro quota dal 2018 al 2022 è scesa del 2,1%, con riduzioni molto più intense delle quote di quante hanno investito in hardware e software, e nella progettazione tecnica e design in vista di nuovi prodotti.
Il declinante dinamismo nella nuova imprenditoria tocca molti Paesi europei e extraeuropei, e contrasta con la presenza di un ampio bacino di soggetti che aspirano ad un’attività imprenditoriale. In uno studio dell’Ocse e della Commissione europea di prossima pubblicazione si parla di vuoti (gaps) di imprenditoria che interessano i Paesi europei e che, se colmati, consentirebbero di far emergere 7,5 milioni di imprenditori aggiuntivi nell’Ue e 34 milioni nella più ampia area Ocse. In questo bacino rientrerebbero nuove categorie, quali gli immigrati, la cui presenza è andata crescendo negli scorsi anni e probabilmente continuerà a svilupparsi in un quadro più variegato di profili umani.
Per valutare la consistenza di queste potenzialità inespresse, l’Ocse segue un approccio aritmetico, che va visto come esempio di scuola piuttosto che come un’indicazione della meta su cui impostare le politiche governative. Si prende come ipotesi di lavoro che nelle categorie più carenti, rappresentate dalle imprenditrici, i giovani tra 18 e 30 anni, gli immigrati e gli anziani tra 50 e 64 anni, si raggiunga la stessa quota di ingressi nel mondo imprenditoriale che si osserva in quella maschile di età compresa tra 30 e 49 anni, fascia che presenta il maggior attivismo nel creare imprese e nel portarle al successo. Ovviamente la propensione all’imprenditoria è condizionata dallo spirito di iniziativa dell’individuo, dalla sua attitudine ad affrontare il rischio di impresa e dalle preferenze, frutto anche dell’atteggiamento sociale verso questo ruolo.
Dalle indagini risulta che in Italia l’imprenditoria femminile e quella dei giovani hanno risentito meno degli altri Paesi delle difficolta create dalla crisi pandemica e in percentuale superiore alla media comunitaria hanno trovato in quel periodo nuove opportunità di business. Al contrario, nell’avviare una nuova impresa hanno incontrato ostacoli maggiori che negli altri, anche rispetto agli anni precedenti. I costi di avvio e gli oneri amministrativi sono giudicati leggermente più sfavorevoli che nella media europea. Al tempo stesso, la partecipazione delle donne, dei giovani e degli anziani nel lanciare nuove imprese, e le loro aspettative di assumere 19 lavoratori nel prossimo quinquennio rimangono al di sotto della media Ue. La quota di soggetti in autoimpiego, invece, è molto oltre la media.
Nell’insieme, se per ipotesi la popolazione fosse così intraprendente nell’avviare un’impresa come lo sono gli uomini tra 30 e 47 anni, si avrebbero 1,6 milioni di imprenditori in più e la maggioranza proverrebbe dalle file delle donne. Secondo queste stime, la percentuale di nuovi imprenditori mancati in Italia è stata nel 2022 la più elevata all’interno dell’Ue, raggiungendo quasi il 100% della nuova imprenditoria che effettivamente si è realizzata.
Alla luce di queste stime l’attenzione dei governi dovrebbe concentrarsi sul sostegno ad una imprenditoria inclusiva, che si indirizzi verso queste categorie a cui vanno aggiunti i disoccupati e le persone con disabilità. L’Ocse e la Commissione suggeriscono politiche che intervengano lungo quattro direttrici: a) le condizioni di contesto favorevoli all’imprenditoria; b) gli aiuti mirati alle specifiche esigenze dei gruppi da sostenere; c) i modi di selezionare e raggiungere i potenziali imprenditori; e d) le analisi, ex ante, in itinere ed ex post, dell’efficacia dei sostegni. In particolare, si incontrano impedimenti di contesto nell’accesso ai finanziamenti, nelle regolamentazioni, nella giustizia, nelle barriere alla concorrenza di mercato, nelle capacità imprenditoriali, nello sviluppo tecnologico o scientifico e nella disponibilità di maestranze qualificate.
Tra le conclusioni dell’Ocse nel valutare le politiche dei paesi europei risaltano l’importanza di tener conto delle motivazioni individuali per il successo delle iniziative imprenditoriali e l’inadeguatezza del fornire aiuti finanziari senza il corredo di una contestuale assistenza non finanziaria consistente nel supporto di mentori, consulenti e tutor. Ad esempio, la concessione di contributi a fondo perduto ai giovani, ad un attento esame dell’impatto sulla creazione o sviluppo di imprese, si è rivelata scarsamente efficace nei paesi che l’hanno adottata (Francia e Uk).
Nell’ultimo triennio i governi italiani hanno potenziato i sostegni all’imprenditoria giovanile e femminile con finanziamenti e aiuti allo sviluppo delle competenze. Ad esempio, nel Pnrr sono stati disposti 560 milioni di euro di risorse e sono stati allocati 3 miliardi per acquisire partecipazioni azionarie in imprese altamente innovative con un impatto a lungo termine, prevalentemente possedute da donne. La disponibilità di risorse non è, tuttavia, garanzia di successo del sostegno se non è accompagnato dall’assistenza tecnica e da un attento e costante monitoraggio dei risultati.
Ma per ridare slancio alla nuova imprenditoria occorre soprattutto che normative, burocrazia, giustizia, lavoro, formazione, finanza e fisco concorrano tutti a instaurare un ambiente favorevole che attualmente è carente.