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L’Impero colpisce ancora. La Russia dopo l’Ucraina vista da Di Liddo (Cesi)

L’analista del Cesi spiega come la Russia e il regime di Putin siano riusciti ad assorbire le conseguenze negative dell’operazione militare in Ucraina. E guardando al futuro, propone una visione realista, non condizionata da speranze o bias

A più di 18 mesi dal suo inizio, il conflitto in Ucraina non sembra avviarsi verso una conclusione. La controffensiva estiva ucraina, da cui ci si aspettavano risultati eclatanti tanto a Kyiv quanto nelle capitali del blocco occidentale, sta esaurendo definitivamente il suo slancio, senza aver conseguito nessun obiettivo particolarmente rilevante. E mentre le logiche d’attrito prendono il sopravvento nella dinamica della guerra (mettendo in mostra le carenze dell’apparato securitario euroatlantico), si comincia a riflettere sugli scenari futuri e sul ruolo che vi avrà la Russia.

Nonostante il whishful thinking mostrato da buona parte della comunità occidentale, il regime autocratico guidato da Vladimir Putin non sembra dare segni di cedimento. Certo, la decisione di mettere in atto l’invasione militare su larga scala ha avuto delle conseguenze che spaziano dall’aspetto diplomatico a quello economico, fino a quello puramente strategico. Ma queste conseguenze non hanno costretto Putin a sottomettersi. Anzi, lo Zar è riuscito a tamponare le difficoltà, stabilizzando il fronte interno e quello “esterno”, a tal punto da invertire le dinamiche pre-esistenti: se infatti all’inizio sembrava che il fattore tempo avrebbe giocato a favore di Kyiv, oggi pare andare a favore di Mosca.

Date le condizioni attuali, non è possibile credere che il sistema internazionale che verrà a svilupparsi al termine del conflitto ucraino comprenderà una Russia “domata” e liberata dalle catene del regime putiniano. Eugene Rumer e Andrew S. Weiss, in un loro editoriale pubblicato sul Wall Street Journal, hanno indicato il re nudo. Sollecitando alcuni quesiti all’interno della comunità politico-strategica del mondo liberale.

“Non è il primo articolo dallo scoppio del conflitto in Ucraina a porre dei dubbi sull’esito della guerra” sottolinea Marco Di Liddo, direttore del Centro Studi Internazionali, che ha accettato di commentare la questione per Formiche.net, “anche altre riviste specializzate o quotidiani altrettanto rilevanti avevano provato ad assumere una posizione più realista e critica rispetto alle certezze narrative della politica circa l’inevitabilità della sconfitta russa e della vittoria ucraina. Questo articolo fa però particolarmente rumore per il momento in cui viene pubblicato, data la presenza contemporanea e sovrapposta di alcuni elementi fondamentali. Innanzitutto l’attenzione mediatica si è spostata sul conflitto tra Israele e Hamas, e sul rischio di contagio regionale che nessuno degli attori vuole. Inoltre, alle porte dell’inverno, la controffensiva ucraina non ha raggiunto gli obiettivi proclamati prima del suo inizio. In questi mesi l’ucraina ha sì raggiunto risultati importanti, come gli obiettivi strategici colpiti nel Mar Nero o in Crimea, o anche la creazione di una testa di ponte sulla sponda meridionale del Dnepr; però, se andiamo a vedere le acquisizioni territoriali concrete i progressi sono stati molto limitati. Forse anche perché gli aiuti all’Ucraina da parte occidentale non sono stati sufficienti a livello volumetrico.”

Per Di Liddo, la guerra si è adattata alle logiche d’attrito, e le difese russe hanno tenuto. A tenere però non è stata solo ‘la trincea’ russa, ma l’intero sistema politico-economico russo, che ha assorbito con grande resilienza due grandi shock: il golpe di Yevgeny Prigozhin e le sanzioni occidentali. “Noi abbiamo sottovalutato gli eventi del 24 giugno per il valore che hanno avuto e per gli impatti che potevano avere. La tenuta di Putin in quel momento è stata decisiva perché il sistema di potere ha dimostrato di essere ancora forte, e la figura di Putin ancora troppo importante, pur in una situazione di grande tensione. Mentre le sanzioni hanno sì colpito l’economia russa, ma non hanno inibito la sua capacità di supportare lo sforzo bellico, e in generale non sono andate ad inasprire gli elementi di criticità tar la popolazione civile e il vertice del potere” commenta l’analista del Cesi, sottolineando poi come la Russia abbia saputo approfittare delle zone oscure dell’economia sommersa e di tutti gli schemi di triangolazione per inficiare l’efficacia delle sanzioni, continuando a ricevere tecnologia e supplendo la perdita dei clienti europei con i clienti asiatici.”

Alla domanda sulla possibile “occidentalizzazione” della Federazione Russa, Di Liddo scuote la testa. “Quello della Russia occidentalizzata è uno dei grandi wishful thinking che ci dobbiamo togliere dalla testa. L’Occidente ha seguito il suo percorso evolutivo, ma non è detto che altri Paesi debbano adattarsi ai suoi standard. Se la Corea del Sud, o il Giappone o l’Australia, sono definiti “occidentalizzati” è perché il loro percorso storico li ha portati ad avere dei sistemi politici e valoriali assimilabili a quelli del nostro modello democratico-occidentale. Ma non è detto che la Russia segua quel percorso, non è né semplice né automatico. Quando immaginiamo che la caduta di Putin possa produrre una Russia liberaldemocratica sul modello occidentale, stiamo commettendo un errore”.

Secondo il diretto del CeSI, l’eventuale caduta di Putin potrebbe portare ad un regime ancora più duro e autoritario, oppure alla frantumazione della Federazione, soprattutto in caso di una sconfitta militare in Ucraina. “Frammentazione che non per forza porterebbe alla nascita di unità democratiche. Anzi. Abbiamo tanti esempi nella storia in cui la frantumazione di poteri ‘imperiali’ non ha portato alla nascita di realtà democratiche, casomai il contrario. Basti pensare al disgregamento dell’Unione sovietica: dov’è che dopo al fine dell’Urss sono nate vere e funzionali democrazie? Nei Paesi Baltici, che de facto appartenevano alla tradizione culturale europea, e parzialmente in Ucraina, in Armenia e in Georgia, pur non senza difficoltà. Se andiamo a vedere gli altri paesi, dall’Azerbaigian alla Bielorussia o alle repubbliche centroasiatiche, fino ad arrivare alla Russia stesa, non troviamo certo sistemi democratici maturi.”

Ma ogni previsione è impensabile, senza sapere quale sarà l’esito del conflitto in Ucraina. Conflitto per il quale una soluzione negoziale continua ad assumere sempre più forza ogni giorno che passa. E già la situazione a cui mireranno i negoziati avrà delle implicazioni preminenti sui futuri sviluppi nell’area. “Si potrebbe negoziare un cessate il fuoco, un armistizio o un trattato di pace. La prima opzione è una soluzione momentanea, che apre al ciclico ripetersi delle operazioni militari. Un armistizio invece è una pausa nei combattimenti prolungata, che però mantiene sostanzialmente lo stato di guerra. Mentre il trattato di pace rappresenta una soluzione più definitiva” spiega Di Liddo. “Ma per quest’ultima opzione a oggi ci sono vari ostacoli. Prima di tutto, il decreto presidenziale ucraino per cui Kyiv non potrà siglare la pace con la Russia rinunciando alla liberazione dei territori occupati. Inoltre, l’Ucraina ha espresso nella propria costituzione la sua vocazione di entrare nell’Unione Europea e nella Nato, cosa che i russi non vogliono assolutamente. Ma vi sono anche altre questioni in sospeso, come quella dei 20.000 bambini ucraini rapiti e portati in Russia. Parlerei al massimo di una situazione di stallo militare a cui viene fatta corrispondere una sorta di certificazione di rallentamento delle operazioni, un cessate il fuoco o un armistizio, nel solco della tradizione russa del frozen conflict. Che porterebbe ad un certo equilibrio: il fronte sarebbe ampio, e quindi sarebbe una spesa importante, rispondendo alle esigenze degli Stati Uniti di tenere Mosca impegnata a lungo nel settore. Ma allo stesso tempo preverrebbe il perdurare di uno stato di conflitto (anche se non combattuto) preverrebbe l’accessione dell’ucraina alla Nato, obiettivo fondamentale di Mosca”.

Secondo l’esperto del Cesi una simile situazione di frozen conflict, paragonabile alla situazione post-2014, impedirebbe all’Europa e alla Federazione Russa un riavvicinamento nel breve periodo, soprattutto sotto il profilo energetico perché la Russia continuerebbe a essere sanzionata e l’Europa non potrebbe comprare direttamente energia dalla Russia. “D’altronde questo processo di allontanamento non è iniziato nel febbraio dello scorso anno. Dobbiamo guardare almeno al 2014, o ancora prima al 2008. Nel famoso summit Nato di Bucarest in cui George W. Bush aprì la porta all’integrazione di Ucraina e Georgia nelle strutture atlantiche, la Russia si è sentita violata in quella che vede come la sua sfera d’influenza. Per un po’ l’Europa ha mantenuto i suoi rapporti commerciali con Mosca, pensando di saper gestire i dossier di carattere politico. Ma questo pensiero si è rivelato essere infondato. E al momento non ci sono modi di invertire questo processo. Finchè l’Occidente sostiene l’Ucraina permarrà una situazione d’attrito totale”.

L’ultima domanda per Di Liddo riguarda la posizione diplomatica di Mosca, e in particolare il suo “abbraccio mortale” con Pechino. “I dati mostrano che l’economia cinese, anche se non performante come un tempo, è ancora infinitamente più grande di quella russa, e le capacità tecnologiche cinesi sono nettamente superiore a quelle russe. In questa partnership il ruolo della Russia è quello di fornitore di materie prime e di partner diplomatico in determinate parti del mondo e su determinati dossier comuni. Ma la Cina è il senior partner. In ogni caso, dal punto di vista politico-diplomatico la Russia non è isolata. “La Russia continua a parlare con l’intera comunità internazionale al di fuori dell’Occidente, e lo fa su una base di parità. Neanche il mandato d’arresto internazionale per Putin ha limitato le capacità diplomatiche del paese, né ha danneggiato l’immagine del paese a tal punto da comprometterne le relazioni internazionali. Il fronte ‘revisionista’ è molto più ampio. Riguarda anche l’India, i paesi del golfo e tutto il cosiddetto ‘Global South’. Che è accomunato da un pensiero, cioè che l’ordine emerso dopo il 1991 è un ordine che non rispecchia gli attuali rapporti di potere e gli attuali equilibri economici e politici nel mondo. Anche se questi paesi non si sono contrapposti in maniera diretta agli Stati Uniti e ai loro partner, hanno mantenuto normali relazioni diplomatiche ed economiche con la Russia”.


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