Affidare la Striscia all’Anp è possibile, ma l’autorità di Abu Mazen deve riformarsi e gestire la fase post-bellica con Onu e mondo arabo. Spazi anche per l’Ue, seguendo una linea di stabilizzazione molto complessa condivisa anche da Washington
Secondo il ministro degli Esteri Eli Cohen, Israele ha una finestra di due o tre settimane prima che le pressioni internazionali per un cessate il fuoco diventino insostenibili. Richieste dirette (uguale: pressione) ci sono già state in conversazioni private con le controparti, e stanno aumentando: ciò porta Cohen a parlare di quella “finestra diplomatica”. Il ministro non ha chiarito cosa dovrebbe o potrebbe accadere dopo questo lasso di tempo, ma le sue previsioni sono molto simili a quelle dell’ex premier democratico Ehud Barak, che a differenza del sentire comune aveva già parlato della possibilità che la guerra Gaza fosse tutt’altro che lunga, a causa proprio delle pressioni internazionali su Israele (e al rischio che Israele subisse un pesante danno di immagine dal conflitto).
La linea ufficiale del governo Netanyahu è che la guerra si fermerà solo dopo che Hamas sarà “dismantle” e tutti gli ostaggi rapiti dal gruppo terroristico in quel sanguinoso attacco del 7 ottobre verranno rilasciati. Ma quello di Benjamin Netanyahu è un esecutivo che di fatto è stato “commissariato dagli americani”, fa notare una fonte diplomatica europea, e lui un leader che per il 75% degli israeliani è “unfit” (significa inappropriato in questo caso caso) per gestire la situazione. Situazione che presenta complicazioni enormi.
Vero che l’aspetto tattico militare procede più fluido del previsto — si prevede un pantano nell’urban warfare gaziese, e invece, gli israeliani sono entrati con perdite al minimo — ed è vero anche che adesso arriva la sfida del sud della Striscia, dove ci sono i comandi e dove i miliziani potrebbero essersi raccolti per la controffensiva, e con loro ci sono 1,5 milioni di profughi spinti là dalle operazioni israeliane. È vero pure che il contesto regionale resta delicato, con l’Iran che dichiara di non voler essere coinvolto, ma con i fronti tenuti dai filo-iraniani — Libano e Siria — che restano caldissimi e con attacchi costanti dallo Yemen.
Gestire la Striscia
Ma è anche vero che dietro al tic-tac di Cohen c’è un problema ancora più profondo: che fare della Striscia di Gaza una volta fermate le armi, o con un cessate il fuoco oppure con un missione compiuta? (Previsione: sarà un ibrido, la missione sarà soltanto raccontata come compiuta quando si cesseranno i combattimenti, è d’altronde nella natura dei conflitti). E come definire la compiutezza dell’operazione senza la definizione pianificata del futuro di Gaza? Su questo, gli Stati Uniti hanno fatto sapere i giornali sin da subito di essere stati molto chiari: Washington ha avallato il diritto di autodifesa israeliano, ma ha sempre insistito per abbinare alla legittima reazione, anche di istinto, un piano strategico ragionato.
Su questo Antony Blinken, il segretario di Stato statunitense, ha costruito la sua enorme missione diplomatica nella regione: e a quanto pare la soluzione emersa in modo più convincente è affidare la gestione della Striscia all’Autorità nazionale palestinese. Il presidente Joe Biden lo ha messo in chiaro in un op-ed uscito sabato 18 novembre sul Washington Post. Il punto è il come, ossia: come passare dalla devastante guerra israeliana (che ha prodotto 12 mila morti) all’amministrazione dell’autorità per ora guidata da Abu Mazen? Sempre sabato, Ayman Safadi, ministro degli Esteri della Giordania, parlando alla conferenza sulla sicurezza “Manama Dialogue”, appuntamento annuale organizzato dal think tank inglese Iiss ha detto: “Voglio essere molto chiaro […] non ci saranno truppe arabe che andranno a Gaza. Nessuna. Non saremo visti come il nemico”.
Il giordano è noto per le sue uscite tranchant — fu lui a dire a Blinken, in conferenza stampa congiunta con il collega egiziano, “ponete fine a questa follia” parlando dell’invasione israeliana. Tuttavia, che una forza di interposizione araba non è nei piani, anche se evocata spesso, pare evidente. Potrebbe esserci spazio per l’Onu però, con il coinvolgimento sotto i caschi blu di Paesi della regione. La fase di deconflicting gestita dall’Onu darebbe a Mahmoud Abbas (Abu Mazen) l’opportunità di evitare un timore che ha espresso a Blinken, spiega una fonte politica palestinese: “Non possiamo arrivare subito dopo gli israeliani, perché altrimenti sembrerà che sono stati gli israeliani a metterci al potere dopo aver devastato i nostri fratelli di Gaza”.
Il passaggio onusiano sarebbe un’investitura di carattere globale che non intaccherebbe la coesione palestinese. Coesione che comporta anche l’inclusione di Hamas in qualche modo. La Turchia (che sulla crisi vuole certamente capitalizzare) continua a sottolineare che Hamas è anche un partito, dando uno spiraglio per salvarla: Ankara sa che Hamas non è solo i leader, politici o militari, ma è un’ideologia e in quanto tale non può essere sconfitta solo con le armi. Israele ne è altrettanto consapevole, ma ignora la questione per il momento. Far riconoscere al gruppo uno sganciamento dall’ala militare, includere qualcuno o qualcosa nel percorso post-bellico al fine di “facilitarne la gestione”, spiega la fonte che ha parlato con Formiche.net a condizioni di anonimato per ragioni di sicurezza. Sarebbe una soluzione intermedia da cui partire per il più profondo dismantle ideologico.
A chi affidare la Palestina (coesa?)
Se il primo scoglio, gigantesco, sarebbe far accettare a Israele che nell’ibrido tra compiutezza e cessazione dei combattimenti ci sarà una qualche inclusione dell’Hamas politica — e anche a questo servono le trattative con i leader condotte dal Qatar, intanto sugli ostaggi, poi si vedrà — l’altro problema è intra-palestinese. Le divisioni tra i gruppi di potere palestinesi sono da sempre state il problema per la Palestina, e siccome l’alternativa forte a Hamas è Fatah, il partito di Abbas, va compresa la sua posizione.
Per una corrente interna, Hamas è un nemico, non tanto per l’azione orribile del 7 ottobre, ma per ciò che ha fatto tra il 2006 e il 2007, quando prese con la forza il controllo della Striscia. Questa corrente è quella di Abbas, che però è anziano (e in non eccellenti condizioni di salute) e senza un erede. Chi seguirà potrebbe essere invece aperto a sistemazioni, anche per non perdere la centralità negli interessi da gestire. A detestare Hamas ci sono anche le Forze di Sicurezza, che hanno in Mohammed Dahlan il punto di riferimento. Businessman negli Emirati, Dahlan è ben visto da Israele perché fa parte di quei leader palestinesi che hanno partecipato alle normalizzazioni tra Israele e mondo arabo.
Questa corrente è potente, ma non è detto che sia la più apprezzata dai cittadini. Il carisma di altri leader palestinesi è cresciuto in questi ultimi anni, complice la condizione di Abbas — anziano, stanco e visto come un potere immobile orientato solo a certi interessi altrettanto immobili. E complice anche una situazione che ha marginalizzato i palestinesi, sia per la polarizzazione interna in Israele, condizione che poi si è riversata sulla questione palestinese, che per il quadro internazionale. Operazioni come gli Accordi di Abramo hanno una lunga gittata, ma nell’immediato non hanno gestito il risentimento delle collettività arabe, per primo quelle palestinesi.
“Non è possibile che la situazione sia gestita da noi palestinesi e dagli israeliani, tanto meno soltanto da voi occidentali: ora serve che il mondo arabo si prenda le sue responsabilità, a partire dal Golfo che ha anche i fondi per sostenere il processo di ricostruzione, che non è solo di Gaza ma dei palestinesi e della nostra Palestina”, dice il politico locale, che suggerisce anche un ruolo più impegnato dell’Unione europea e di Paesi come l’Italia (richiamo interessato visto l’interlocutore). E però, sono le leadership arabe che per ora non hanno sciolto le riserve, consapevoli che un tale impegno sarebbe pregno di insidie.
Per quel che riguarda l’Ue, la posizione di Bruxelles non è definita ma a quanto si evince dalla visita del Hr/Vo Josep Borrell in Cisgiordania in Israele — dove non ha incontrato Netanyahu, ma il presidente Isaac Herzog il ministro Cohen e il leader dell’opposizione Yair Lapid, ed è anche questo un messaggio — la linea è molto simile a quella statunitense. La Striscia in mano a una “effective and revitalized” Autorità, come aveva detto Blinken, senza spiegare per ora come rendere i due aggettivi qualcosa di concreto. Berlino ha l’idea più palpabile e forse potabile: internazionalizzare la situazione di Gaza attraverso l’Onu (e, o con, forze regionali). Ciò, per il governo tedesco, dovrebbe portare a “una transizione attentamente organizzata” verso l’auto amministrazione palestinese, “idealmente” attraverso le elezioni e “in combinazione con una coalizione internazionale che fornisce la sicurezza necessaria”.