Prima la notizia dei tre emendamenti alla Manovra, poi il ritiro annunciato dal capogruppo in Senato, Romeo. Il Carroccio continua a punzecchiare il governo, facendo innervosire l’elettorato di centrodestra (anche leghista). Tajani cerca di gestire l’eredità berlusconiana, mettendo un suo uomo di fiducia a guidare il gruppo di Palazzo Madama. Rimandare la ratifica del Mes? Forse non è sbagliato. Conversazione con il politologo Alessandro Campi
Prima l’annuncio di tre emendamenti alla Manovra. Poi il ritiro dopo le frizioni – neanche troppo sotterranee – con gli alleati di governo e il capogruppo al Senato, Massimiliano Romeo che tenta di smorzare i toni. La Lega continua con le “punture di spillo” all’esecutivo di cui essa stessa è parte. Nel frattempo, Maurizio Gasparri si dimette da vicepresidente di palazzo Madama per andare a ricoprire, al posto di Licia Ronzulli, il ruolo di capogruppo. Cosa sta accadendo dalle parti della maggioranza? Lo abbiamo chiesto ad Alessandro Campi, politologo e docente di Storia delle dottrine politiche all’Università di Perugia nonché commissario dell’Istituto per la storia del Risorgimento italiano.
Prima l’annuncio di tre emendamenti da parte della Lega – un’azione contraria alla linea che aveva stabilito l’esecutivo – poi un “contro-annuncio” del ritiro degli stessi. Che partita sta giocando il Carroccio secondo lei?
La stessa da quando è nato il governo guidato da Giorgia Meloni. Punture di spillo intermittenti, un continuo volersi distinguere e alzare la posta finalizzato a contare di più nelle scelte dell’esecutivo e a recuperare qualche punto di consenso in vista delle prossime elezioni europee. È la dinamica tipica dei governi di coalizione, purché non si tiri tropo la corda. Matteo Salvini, non è un mistero, soffre la leadership della Meloni, frutto di un’inversione brusca, nel giro di pochi anni, dei rapporti di forza tra i rispettivi partiti. Anche se, a guardare i sondaggi, i suoi continui smarcamenti politici e il ritrovato protagonismo sul piano della comunicazione non mi sembra che sinora abbia portato a Salvini grandi risultati. Anzi, il rischio è che questo suo atteggiamento venga vissuto con fastidio dagli elettori di centrodestra, inclusi molti leghisti, che tutto desiderano in questo momento meno che la maggioranza venga messa in crisi da chi ne fa parte solo per ragioni di pseudo-prestigio personale. C’è da sperare che Salvini ancora ricordi quanto gli sia costato in termini di consenso il colpo di testa dell’estate 2019, quando fece cadere il governo Conte puntando su elezioni anticipate che poi non ottenne. Se cade la Meloni o se punta a indebolirla troppa con l’idea di condizionarla, si rischia di fare non solo il male della coalizione, ma anche il proprio.
Grandi manovre in Forza Italia. Maurizio Gasparri si è dimesso dall’incarico di vicepresidente del Senato per assumere quello di capogruppo in Senato al posto di Licia Ronzulli. Qual è secondo lei il disegno che sta alla base di questa riorganizzazione del partito guidato da Antonio Tajani?
Raccogliere l’eredità di Berlusconi era e in parte rimane un’impresa se non impossibile, a dir poco difficilissima. Tajani ci sta provando. Guida un partito in calo di consensi da molti anni, peraltro in grandi difficoltà dal punto di vista organizzativo e finanziario. Che però, con la sua collazione centrista-liberale e la sua affiliazione al partito popolare europeo, rappresenta una componente imprescindibile dell’attuale maggioranza di governo. Naturalmente, sarà cruciale il tornante delle prossime elezioni europee, quasi una prova di sopravvivenza per il partito. Prova che Tajani può cercare di affrontare e superare solo avendo un pieno controllo su Forza Italia, che tutto si può permettere in questa fase di transizione meno che di dividersi al suo interno in correnti e gruppi di potere.
Da qui la necessità d’avere le mani libere dal punto di vista organizzativo, della linea politica, degli incarichi e, in prospettiva del voto europeo, delle prossime candidature. Da questo punto di vista, l’avvicendamento tra Gasparri e Ronzulli alla guida del gruppo del Senato è sicuramente un punto a favore di Tajani, che ha vinto il suo braccio di ferro, durato mesi, con quella che, in un certo momento, è stata tra le più strette collaboratrici di Berlusconi. Tajani ha con Gasparri una frequentazione e una confidenza che risale addirittura agli anni del liceo. Per capirci, è una persona dalla quale non deve guardarsi le spalle. E questo può renderlo più tranquillo nel suo tentativo di dare un futuro a Forza Italia: beninteso un futuro da piccolo-medio partito di centro.
La Commissione Europea ha promosso con riserva a Manovra. Il governo sta siglando in queste ore il piano d’azione con la Germania. Nel frattempo Berlino preme per sulla questione debito e, al centro, si tratta per la revisione del Patto di Stabilità. Che partita deve giocare il nostro Paese in Ue?
Il governo ha scelto con l’Europa una strada certamente rischiosa, una partita a metà tra una sfida politica che per alcuni somiglia ad una forma di irresponsabile provocazione e una trattativa diplomatica che come si vede sta diventando defatigante. Ma l’Italia non aveva alternative, vista la situazione in cui si trova dal punto di vista del debito pubblico. Da un lato è certamente, in questo momento, l’anello debole della catena (vista anche la recessione che ha colpito tutte le economie del vecchio continente), dall’altro ha un ruolo politico all’interno dell’Unione che è pur sempre di primo piano. Insomma, rimandare l’approvazione del Mes per cercare di ottenere una riforma del patto di stabilità il più conveniente possibile per l’Italia, è stato un azzardo necessario che alla fine potrebbe anche produrre qualche risultato positivo. L’idea che l’Italia sia isolata in Europa e che tutti gli alleati ci guardino con angosciata preoccupazione mi sembra una rappresentazione propagandistica.
Come valuta l’atteggiamento del premier, nei rapporti con l’Ue?
Giorgia Meloni nei suoi rapporti con l’Europa è stata meno polemica e conflittuale di quanto si dica, o di quanto si poteva temere al momento del suo insediamento. Con i vertici europei ha sempre avuto, al di là dei toni da battaglia talvolta usati, una posizione dialogante e collaborativa. Alzare al voce talvolta è necessario. Forse l’Italia lo ha fatto poco negli anni passati, vittima di un europeismo che in certi momenti è stato sin troppo pedissequo e obbediente. In questo c’è un cambio di atteggiamento che ritengo positivo, purché si capisca che in Europa in dialogo, la trattativa, le alleanze sono un elemento decisivo per avere successo.
Il ddl per il rafforzamento del Codice Rosso trova il consenso unanime della Commissione Giustizia al Senato. Ora, secondo lei, la politica riuscirà a trovare una quadra per arrivare all’agognato giro di vite in questo senso?
Mi sembra che tra maggioranza e opposizione si sia trovato, su questo delicato tema, un punto d’intesa nel segno della ragionevolezza e di un comune interesse a individuare antidoti al fenomeno di una cultura della violenza, non solo quella contro le donne, sempre più dilagante. Detto questo, non mi piace molto quest’idea che sta prendendo piede di uno Stato pedagogo che, attraverso la scuola in particolare, dovrebbe impegnarsi sempre di più in capillari programmi di rieducazione collettiva a colpi di opuscoli, corsi d’aggiornamento, sedute di gruppo, laboratori di autocoscienza e chissà cos’altro ci si inventerà. Quando in Italia accade qualcosa di eclatante, si reagisce sull’onda dell’emozione sempre in due modi: si fanno nuove leggi sulla carta più repressive (spesso inutili e discutibili) e si interviene modificando i programmi d’insegnamento con l’idea di prevenire, indirizzare, rieducare sin dalla più tenera età (anche in questo caso senza grandi risultati). Non so bene quali programmi e percorsi didattici si abbia in mente in materia, ad esempio, di educazione all’affettività e alla relazionalità: dal mio punto di vista, per capire cosa siano siano l’amore, il rispetto per le donne, l’etica della società e l’osservanza delle norme di una civile e ordinata convivenza la lettura in classe di Dante potrebbe essere un buon punto di partenza.
Sta infuriando il dibattito sulla questione patriarcato, ossia sulla matrice ideologica che porta ai femminicidi. Lei che idea ha?
Patriarcato – come già populismo, razzismo, colonialismo, fascismo – è divenuto in poco tempo una parola passpartout, ovvero un feticcio ideologico-propagandistico, all’interno del quale si mette di tutto e col quale si vorrebbe spiegare tutto quello che non va o che non piace della società in cui viviamo. Una battuta a doppio senso è espressione di una cultura patriarcale e sessista? E guardando ai modelli culturali e ai canoni estetici dominanti nella rappresentazione pubblica davvero si può affermare che quella patriarcale sia la mentalità che ancora indirizza i comportamenti sociali degli uomini sin dalla loro giovinezza? La mia impressione è che si stia mettendo sotto accusa un modello sociale e valoriale che semplicemente non esiste più. La verità è che le società occidentali stanno diventando bigotte, intolleranti, culturalmente monocordi e potenzialmente repressive del dissenso esattamente come quelle che denunciamo come retrive e illiberali. A furia di introdurre divieti e interdetti, con l’idea in sé lodevole di ingentilire le relazioni interpersonali, stiamo diventando a nostra volta talebani sul piano del costume, del linguaggio e dei comportamenti. Senza contare che certi modelli comportamentali non possono essere imposti del decreto dall’alto, sono il frutto di percorsi di apprendimento che nascono dell’educazione famigliare e dalle altre forme di socializzazione che, come insegna l’esperienza di ognuno di noi, sono quelle che contribuiscono all’effettiva costruzione della personalità individuale. Aggiungo un’altra cosa. Avere come bersagli degli aggregati anonimi o dei gruppi generali, appunto gli uomini, il maschilismo, la società patriarcale, ecc., da un lato toglie valore e offre una paradossale giustificazione ai comportamenti individuali devianti, dall’alto spinge a ragionare sulla società nel modo distorto tipico dei complottisti quando se la prendono con entità collettive vaghe e indistinte. Gli uomini non sono un soggetto sociale concreto, sono una categoria astratta, esattamente come le donne: ogni generalizzazione rispetto al loro modo di pensare e comportarsi, lascia il tempo che trova.
Quindi lei che lettura dà a ciò che è successo in questi giorni a seguito del brutale assassinio di Giulia Cecchettin?
Mi sembra abbastanza chiaro: una tragedia imputabile ad una patologica ossessione è stata largamente trasformata in una querelle politica strumentale. Ma non basta. Da un lato, ci si indigna per come simili vicende vengono rappresentate dai media in modo spesso morboso e non rispettoso del dolore privato delle persone coinvolte, dall’altro non facciamo che leggere i dettagli più scabrosi sull’assassinio della povera Giulia. Si sacrifica l’etica del rispetto a una visione ipocrita e retorica del diritto di cronaca, esattamente come è sempre successo con casi del genere. Insomma, oltre alle molte divagazioni da sociologi della domenica sulle colpe storiche del patriarcato, ci tocca anche sentire le prediche pubbliche intrise di falsa morale di quelli che anche di questa vicenda hanno fatto uno spettacolo in presa diretta.