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Così la cultura contribuirà a rendere gli italiani uguali. L’analisi di Monti

La ricchezza economica non è l’unica forma di capitale dell’individuo e delle società. Fare in modo che chiunque possa migliorare la propria esistenza trovando nella cultura uno strumento per affinare il proprio pensiero, e migliorare la propria qualità della vita è un correttivo che può generare effetti davvero positivi per il nostro Paese. L’analisi di Stefano Monti

Stando a recenti ricerche, la disuguaglianza economica è un elemento che ha caratterizzato gran parte della storia d’Italia. Fanno eccezione le catastrofi, le epidemie, le guerre. Quegli eventi che, in altri termini, infliggendo perdite enormi alla società nella sua interezza sviluppano un effetto redistributivo considerevole.

Si tratta però di periodi di breve durata, perché gli effetti di tale ridistribuzione forniscono presto una nuova spinta alla crescita, demografica ed economica, che porta a sua volta alla concentrazione della ricchezza e, di conseguenza, all’emersione di maggiori livelli di disuguaglianza economica.

Stando ai risultati delle ricerche condotte da un team di ricercatori europei, finanziato dallo European Research Council e coordinato dall’Università Bocconi, in Italia tra il 1300 e il 1800, il 10% più ricco della popolazione ha posseduto sempre una quota più che proporzionale di ricchezza.

Il livello massimo di concentrazione si è avuto nel 1800, quando il 10% più ricco possedeva circa l’80% di tutta la ricchezza disponibile. Meno concentrata era invece la ricchezza tra il 1350 e il 1500, con il picco minimo nel 1490, quando il 10% più ricco della popolazione possedeva “soltanto” il 49% della ricchezza totale.

Per fare un paragone grossolano, nel 2021, a possedere il 45,6% della ricchezza globale non era il 10%, ma l’1% più ricco dei nostri concittadini.

Disuguitalia, la ricerca Oxfam sulle disuguaglianze nel reddito nel nostro Paese, ha mostrato che tra il 2000 e il 2018, il 10% più ricco della popolazione è arrivato a possedere il 56,13% della ricchezza, mentre il 50% più povero della popolazione (e quindi la metà più povera dei cittadini italiani), possedeva, nello stesso anno, circa il 7,85% della ricchezza totale.

Malgrado tali confronti vadano sempre affrontati con cautela, è evidente che è in atto un processo di sempre più evidente concentrazione della ricchezza, con un contemporaneo processo di riduzione di ricchezza da parte delle persone meno ricche del nostro Paese.

Si tratta di premesse molto delicate, che disegnano una cittadinanza sempre più fratturata, con una porzione minoritaria che detiene grandi capitali e una percentuale sempre crescente di persone che invece vivono in condizioni di povertà, semi-povertà, o di ristrettezza economica.
Condizioni che di certo richiedono una riflessione ampia, poiché ampie ne sono le connessioni potenziali: sui consumi, sulla demografia, sullo sviluppo economico, sulla capacità di innovare.

Nonostante le cifre evidenzino una criticità sostanziale, il dibattito pubblico legato a questo tema è demandato esclusivamente alle arene politiche, all’interno delle quali ciascuna tematica si risolve in modo rocambolesco e poco riflessivo, traducendosi in uno scontro, talvolta celato, talaltra strillato, tra forze politiche che, ricorrendo a dati e fonti differenti, si attribuiscono responsabilità presenti o storiche, senza tuttavia consentire alla popolazione di sviluppare una propria idea, scevra dalle chiavi ideologiche di interpretazione del mondo.

Differente sarebbe invece affrontare tale tematica all’interno di un contesto neutro che, a differenza dello scenario politico, non avrebbe come obiettivo ultimo la “vittoria” di uno dei due esponenti, né l’attribuzione di responsabilità e mancanze.

Favorire la visione di cultura come opportunità di approfondimento culturale, che permetta di proiettare questi temi “lontani da noi”, e ne faccia emergere gli aspetti più prettamente informativi e di confronto.

In che modo l’Impero Romano disciplinava le immigrazioni? In che modo i grandi potenti dell’epoca rinascimentale favorivano lo sviluppo della società? Cosa ha influenzato lo sviluppo delle piccole e medie imprese nella seconda metà del novecento? Ci sono opere cinematografiche che illustrano a cosa hanno portato le condizioni di disuguaglianza economica all’interno di contesti socio-economici differenti (temporalmente o geograficamente) dall’Italia? Ci sono libri che permettono di avere una visione “in prima persona” dei periodi di grande trasformazione sociale che sono avvenuti nell’ultimo mezzo secolo in paesi come la Cina, gli Stati Uniti? Ci sono opere d’arte che indagano il fenomeno del cattivo governo all’interno di Paesi differenti o in epoche differenti dalla nostra? Ci sono opere dell’intelletto che consentono di comprendere la differenza degli stili di vita tra l’Italia e un Paese economicamente più stabile? Ci sono fumetti, videogiochi, giochi di ruolo che consentano di far comprendere realmente quali siano le implicazioni più concrete che emergono tra l’Italia e un Paese con un tasso di natalità estremamente più elevato e con una popolazione significativamente più giovane?

A seguito dell’eccessivo sodalizio tra cultura e politica che ha contraddistinto la seconda metà del novecento, operatori culturali e politici hanno cercato di separare tali componenti, lasciando alla cultura l’importante compito di favorire lo sviluppo economico del Paese, ed identificando nella politica la gestione dei grandi temi che abitano il nostro quotidiano.

Ogni tentativo che sia andato in una direzione opposta, cercando quindi di riunire la dimensione culturale e quella politica, è stato rifuggito, a fronte di una potenziale politicizzazione della cultura.

Una condizione che pur se ha favorito una certa emancipazione del settore culturale sotto il profilo economico, ha dall’altro lato allontanato la dimensione culturale dall’esistenza delle persone.

I dati strutturali, tuttavia, descrivono il nostro Paese in una congiuntura quantomeno precaria all’interno di uno scenario internazionale sempre più tendente al policentrismo, con una narrazione occidentale che diviene sempre più debole, e una pressione culturale ed economica di altre aree (l’area araba, ma anche l’area cinese), che sono forti di una visione del mondo differente da quella che, per qualche secolo, ha rappresentato il modello più convincente.

Se nel breve e brevissimo periodo, dunque, può essere efficace identificare nella cultura uno strumento per veicolare l’immagine del nostro Paese e una leva per rendere più cospicue le economie turismo-correlate, in un intervallo temporale più ampio la reale opportunità che ha il nostro Paese è quella di sviluppare, forte delle criticità che è costretto ad affrontare, una nuova interpretazione del ruolo della cultura nel nuovo millennio.

Sovvertire l’ordine dei fattori, in questo caso, cambia il risultato: ciò per cui vale la pena impegnarsi non è tanto una politicizzazione della cultura, tendenza che, travestitasi di linguaggio istituzionale non si è mai davvero estinta, ma una culturalizzazione della politica.
Si tratta di una logica che coniuga le esigenze di sostenibilità economica e finanziaria di breve e di medio periodo con le istanze di sviluppo più ampie di cui il nostro Paese necessita.

Non si tratta di trasformare gli attuali centri di fruizione in “fabbriche del pensiero politico”. Né tantomeno si intende favorire il ripescaggio di termini obsoleti come “agora” o affini.

Si tratta di creare una produzione culturale in grado di intercettare, all’interno dei vari consumi culturali esistenti, non solo quella tensione culturale verso una cultura meno “blasonata” e “autoreferenziale”, ma anche una cultura che sappia poi essere strumento di riflessione, applicato alla vita reale.

Una cultura che sia in grado di tradurre in un linguaggio comprensibile, ma non banalizzante, i grandi temi del nostro tempo: il fascino e il terrore delle intelligenze artificiali, l’opportunità e la minaccia di un Paese con una sempre maggiore percentuale di cittadini stranieri, la necessità o l’entusiasmo di dover creare nuove forme di imprenditoria per sfruttare vuoti di mercato.

Una posizione di questo tipo deve trovare un primo impulso anche nella sfera pubblica. Non perché non possa essere sostenibile, ma perché una spinta di questo tipo è innegabilmente volta alla costruzione di quella dimensione sociale e comune alla cui tutela la pubblica amministrazione è chiamata, ancor prima che alla tutela dei monumenti.

L’attuale legislatura, che attualmente ha prodotto azioni più legate alla dimensione “politicizzata” e alla “monetarizzazione” della cultura, può tuttavia cogliere l’opportunità di essere la legislatura che ha avuto il coraggio, e l’impegno, di riportare la cultura al centro della vita delle persone, stimolando la diversità di pensiero che questo Governo ha adottato come stendardo mediatico nell’identificazione di referenti di istituzioni, o nella risposta alle accuse mosse dall’opposizione. Opposizione che, in questo periodo, si è limita ad opporsi ai singoli episodi, senza mai dare volume (nel senso di profondità) ad una visione alternativa.

In fondo, la questione è piuttosto semplice: da secoli la ricchezza economica tende ad essere distribuita in modo diseguale. Al riguardo, è necessario fare in modo che questa tendenza rientri all’interno di un margine che garantisca in ogni caso la crescita della società nel suo complesso.

La ricchezza economica tuttavia non è l’unica forma di capitale dell’individuo e delle società. Fare in modo che chiunque possa migliorare la propria esistenza trovando nella cultura uno strumento per affinare il proprio pensiero, e migliorare la propria qualità della vita è un correttivo che può generare effetti davvero positivi per il nostro Paese.

Se non applichiamo questa regola base. Se favoriamo le disparità economiche, ma anche le disparità sociali e culturali. Se facciamo in modo che l’assenza di confronto alimenti il personale malcontento.

Se facciamo tutto questo. Stiamo davvero condannando gli italiani ad essere per sempre disuguali.



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