Nelle stesse ore in cui dal summit nel Golfo esce a sorpresa un’intesa per fermare le emissioni fossili entro il 2050, il ceo del Cane a sei zampe detta la linea per i prossimi anni. Il mondo gira ancora con petrolio e carbone, ma la strada è ormai segnata, bisogna sbrigarsi. L’auto elettrica? Scelta sacrosanta ma attenzione a non demonizzare il gas
L’accordo, almeno sulla carta, c’è. Fine degli idrocarburi entro il 2050. Nessuno osava solo lontanamente crederci fino a due giorni fa, quando i lavori della Cop28 sembravano essere finiti sul binario morto. Troppo forte il pressing dei Paesi arabi, principali produttori di greggio al mondo e padroni di casa della dodici giorni di Dubai. Ma alla fine le resistenze sono state vinte. Certo, dalle parole ai fatti, la storia insegna, il passo è lungo e da qui a trent’anni possono succedere molte cose. Tanto per cominciare, in questi ultimi mesi la domanda di oro nero è aumentata e molti governi sono tornati a battere la strada degli idrocarburi (qui l’intervista all’economista ed ex ministro, Alberto Clò) a cominciare dalla Germania, orfana del nucleare e con una transizione green, complice il clima poco favorevole.
Lecito, dunque, avere qualche dubbio, se non altro sulla prospettiva di spedire in soffitta carbone e petrolio in breve tempo. Dubbi, di cui non ha fatto mistero nemmeno Claudio Descalzi, intervistato dal Sole 24 ore proprio nel giorno dell’accordo di Dubai. “Difficilmente possiamo pensare di cancellare in modo immediato le fonti che oggi rappresentano l’80% della produzione di energia. E serve fare anche altro, in modo da poter spiazzare il contributo dei fossili: efficienza energetica, cambiamento delle modalità di consumo, puntare sull’idrogeno e sullo stoccaggio di CO2, spingere fonti rinnovabili come l’eolico e il solare al di là della loro attuale efficienza, il nucleare di nuova generazione e quello da fusione”, ha spiegato il ceo di Eni.
Una svolta necessaria che però ha un prezzo. Occorre, cioè, “non restringere l’offerta nel breve medio termine, soprattutto del gas che è la componente meno emissiva, perché causerebbe conseguenze insostenibili in termini di sicurezza, sviluppo delle aree emergenti, inflazione a danno di imprese e famiglie, nonché impatti sui bilanci statali. Non sono ammesse incertezze e tutti devono impegnarsi: a partire dai Paesi in cui si producono la quantità maggiore di emissioni, Stati Uniti e Cina, che pesano per quasi metà del totale. Certo l’orizzonte temporale dei grandi cambiamenti è stato finora di 40-50 anni, e in termini additivi, mai di completa sostituzione. Oggi tutto questo tempo non c’è. Occorre andare più rapidi”.
Non è finita. Volenti o nolenti, la transizione è il futuro. Il punto è capire quando. “Dobbiamo essere consapevoli che non esiste alternativa perché è una corsa verso la sopravvivenza. E dev’essere chiaro che la transizione energetica non è una moda. La Commissione europea ha posto il traguardo di contenere a +1,5 gradi l’aumento di temperatura al 2050. L’obiettivo è corretto, anche se può apparire difficile da raggiungere. Ma noi ragioniamo a parità di tecnologie disponibili l’innovazione permette evoluzioni che riducono i tempi prevedibili oggi”.
Il ragionamento di Descalzi, che guida il Cane a sei zampe dal 2024, si sposta poi sull’auto elettrica, di cui la Cina è padrona assoluta, almeno in termini di mercato. La transizione passa anche da lì. Ma attenzione a non farne un totem. “L’auto elettrica è una scelta sacrosanta ma ha come componente chiave le batterie, che a loro volta necessitano di metalli rari come il litio, controllati da pochi Paesi. La lotta senza quartiere al gas è discutibile perché, alla fine, genera emissioni due volte meno del carbone. In Italia, per esempio, il gas continuerà a essere componente fondamentale della domanda di energia e quindi del mix produttivo”.