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Contro Berlusconi è in vantaggio la squadra dei mozzorecchi

Un Totò redivivo sarebbe costretto a capovolgere una delle sue più celebri battute (“Poi si meravigliano se uno si butta a sinistra”), perché, adesso, ad osservare con onestà intellettuale il comportamento del Pd nella vicenda Berlusconi c’è solo da rimanere inorriditi.

Sia chiaro: chi scrive ritiene che il Cavaliere sia ormai un uomo finito a cui non rimangono àncore di salvezza (neppure la fuga all’estero, visto che si è fatto ritirare il passaporto) e che a determinare questo esito per una personalità che, nel bene e nel male, ha dominato per un ventennio la scena politica italiana, abbiano concorso, insieme alle scarse virtù pubbliche e ai giganteschi vizi privati, una vera e propria persecuzione giudiziaria che non ha precedenti per strumentalità e partigianeria. E, per quante critiche si possano fare a Silvio Berlusconi, non è accettabile, in uno Stato di diritto evocato a sproposito dagli esponenti del Pd, che si usi un potere delicato ed essenziale come quello giudiziario per condurre una lotta politica. Nessun potere è altrettanto forte di quello detenuto da coloro che, in toga, hanno la possibilità di privare i cittadini della libertà e dell’onore senza mai essere chiamati a rispondere degli abusi.

È molto più comprensibile e giustificato – in una guerra civile – un tribunale rivoluzionario che condanni a morte – per questo solo fatto – gli avversari politici della sua fazione piuttosto che – in un regime democratico – delle corti di giustizia che svolgano la medesima funzione con il pretesto di perseguire dei reati. Ma, lo ripetiamo, quello del Pd è un comportamento vomitevole. Quale sia la ragione vera della intransigenza di quel partito nel caso Berlusconi non sfugge neppure ad un bambino. Se il Cavaliere dovesse scamparla anche questa volta, il Pd, sotto congresso, si sfascerebbe. Perché la sua base – educata a pensarla così e tenuta insieme solo con l’odio per il Cav.– ritiene che il Cavaliere debba scontare una sorta di peccato originale e che l’avergli consentito tre gradi di giudizio prima della condanna definitiva sia stata un’inutile perdita di tempo, essendo la sua colpevolezza talmente evidente da non ammettere controrepliche.

Se questa è la realtà, perché Guglielmo Epifani non lo riconosce apertamente senza arrampicarsi sugli specchi e ripetere la solita litania che la legge deve essere uguale per tutti, nel momento stesso in cui il Pd si sottrae dal valutare gli argomenti giuridici non infondati sostenuti dal collegio di difesa e da insigni giuristi? Proprio perché la legge deve essere uguale per tutti non è giusto negare al Cavaliere – vista l’essenzialità dei diritti che per lui sono in pericolo – ogni approfondimento giuridico, anche se limitato a tenere aperta il più a lungo possibile una uscita di sicurezza. Del resto a questo serve la procedura penale. Non a perder tempo a bella posta per impedire che sia resa giustizia sulla base di una vox populi, peraltro ad estensione limitata nel Paese.

Il fatto che dal Capo dello Stato possa venire un atto di clemenza è contemplato dalla Costituzione e rientra in quelle stesse prerogative discrezionali del Presidente che gli hanno consentito la nomina di 4 senatori a vita. La revisione del processo, anche nel caso in cui la sentenza sia passata in giudicato, è regolata dalla legge qualora emergano nuove prove di cui non si è tenuto conto nel giudicare l’imputato.

Infine, la Giunta per le elezioni del Senato ha poteri giurisdizionali ed è quindi abilitata a porre un quesito alla Consulta sulla sussistenza di una retroattività delle norme sulla decadenza di cui alla legge Severino. La questione non è di poco conto, perché questa normativa è stata definita attraverso un voto del Parlamento su di una norma di delega che indicava i principi e le direttive per un successivo decreto legislativo emanato in gran fretta, a fine 2012, (undici mesi prima della scadenza della delega) dal governo Monti ormai dimissionario. È in questa visibile discrepanza che la Corte costituzionale sarebbe chiamata ad indagare.

Non ha quindi senso l’atteggiamento pilatesco di quei parlamentari che affermano “io la legge Severino l’ho votata e nessuno mi ha detto che era incostituzionale”. Non ha senso perché il giudizio di incostituzionalità non è una convinzione personale e soprattutto perché nessun parlamentare, anche se ha votato la legge, non ha votato il decreto legislativo essendo esso responsabilità del governo, salvo un parere obbligatorio ma non vincolante delle Commissioni parlamentari competenti. In sostanza, il decreto legislativo è stato emanato a Camere sciolte e a campagna elettorale avviata ovvero nel peggiore dei modi per compiere un’operazione tanto delicata come le regole sulla decadenza e sull’incandidabilità. Per quanto riguarda il decreto legislativo, ancora una volta, toccherebbe alla Consulta rilevare un eventuale eccesso di potere da parte dell’esecutivo. Oggi, 9 settembre, inizia la partita. Purtroppo, la squadra dei mozzorecchi sembra in vantaggio.

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