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Perché Hezbollah alza la tensione con Israele (e con l’Italia)?

I miliziani libanesi sanno che nella fase delle operazioni che seguirà l’invasione della Striscia, ci saranno anche loro al centro dei mirini israeliani. Per questo sfogano tensioni e minacce

Hezbollah è nervoso. Il Partito di Dio sa che se Israele entrerà in una nuova fase operativa, concludendo nel giro di qualche settimana al’invasione su larga scala della Striscia di Gaza e avviando una campagna martellante di eliminazioni mirate (come dicono i rumors), allora tra i target di Tsahal non ci sarebbero soltanto i miliziani palestinesi di Hamas, ma anche i libanesi. Per questo reagisce ruggendo, minaccia l’espansione dei combattimenti e cerca di mantenere un’immagine di forza con un messaggio indirizzato sopratutto all’interno — dove il consenso è totalmente ideologizzato e va tenuto sotto controllo dalla propaganda.

È in quest’ottica che vanno lette le provocazioni di Naim Qassem, chierico sciita e secondo in comando con il titolo di vice segretario generale di Hezbollah, che accusa anche l’Italia di far parte di quella che chiama “coalizione del male”. Si riferisce all’attività di sicurezza marittima nel Mar Rosso per contenere la destabilizzazione al traffico commerciale prodotto dagli Houthi — anche in questi giorni il cacciatorpediniere americano USS Mason ha abbattuto un drone e un missile anti-nave lanciati dallo Yemen.

Qassem mescola il caos, dice che “è necessario fare fronte comune contro la coalizione del male rappresentata da America, Israele, Francia, Gran Bretagna, Italia e Germania con la coalizione del bene delle forze della resistenza anti-israeliana in Palestina, Libano, Iran, Yemen e Iraq”. Il leader sciita libanese evoca l’Asse della Resistenza, il raggruppamento ideologico a guida iraniana, di cui Hezbollah si percepisce modello e punto di riferimento — visto i successi ottenuti in termini di consenso in Libano e di capacità operativa militare.

Finora Hezbollah ha cercato di mantenere il proprio impegno contro Israele su un doppio livello: sul piano retorico, minacce continue e dichiarazioni guerresche; su quello pratico ha però evitato un coinvolgimento pesante, restando su un livello di media intensità. Ha lanciato razzi in modo pressoché costante dal 7 ottobre a oggi, ma nel suo atteso discorso a guerra iniziata, il leader maximo, Hassan Nasrallah, ha posto il gruppo un passo indietro rispetto al teatro di guerra. Coinvolgimento spirituale, sostegno narrativo, ma niente ingresso in guerra e limitata assistenza tecnica e logistica.

Come sottolineato anche da Teheran, la guerra è un affare tra israeliani e palestinesi, su cui l’Asse fornisce appoggio contro il nemico esistenziale, lo Stato ebraico, ma per ora non combatte de iure. Tanto che nemmeno Israele considera le attività militari al sud del Libano come attacchi di Hezbollah, sebbene de facto lo siano. Le operazioni militari non hanno riguardato infatti quel territorio, dove gli israeliani però non hanno rinunciato a qualche risposta di artiglieria e soprattutto hanno condotto raid aerei.

La campagna di attacchi mirati contro postazioni dell’Asse è in parte già in atto, coinvolge non solo la Striscia, ma anche Siria e Libano, può arrivare potenzialmente in Iraq ed espandersi in qualche modo allo Yemen. Alti funzionari dell’amministrazione Biden ne stanno già parlando con le controparti israeliane e arabe, lo farà anche il segretario di Stato nel suo prossimo tour mediorientale. Alla prossima fase (le cui tempistiche non sono formalmente calendarizzate) gli Stati Uniti potrebbero partecipare con maggiore presenza.

D’altronde, un conto è sostenere legittimità e diritto dell’invasione della Striscia — in cui i morti superano i ventimila e almeno seicentomila civili sono in condizioni umanitarie complesse — ne è testimonianza la telefonata scocciata di Joe Biden a Benajamin Netanyahu che è su tutti i giornali. Un altro è partecipare a iniziative contro un asse terroristico che mette in crisi la regione. Washington per esempio sta pensando che nel Mar Rosso/Mar Arabico sia necessario passare dalla linea puramente difensiva ad azioni di attacco contro le postazioni degli Houthi. Sarebbe una dinamica a basso costo e su cui non sarebbe impossibile trovare un consenso ampio della Comunità internazionale.

Due giorni fa, ci sono stati i funerali di Razi Mousavi, generale delle Quds Force (unità d’élite dei Pasdaran) ucciso da un raid israeliano in Siria. Alle esequie erano presenti il comandante in capo dei Pasdaran, Hossein Salami, il capo delle Quds Force, Esmail Ghaani, e il suo vice, e addirittura la Guida Suprema Ali Khamenei (accompagnato da suo figlio Mostafa) ha benedetto il feretro. La leadership iraniana manda un messaggio di compattezza, ma non nasconde tensione per ciò che verrà dopo.

Raid come quello su Mousavi potrebbero essere una nuova normalità. Sull’americano Al Monitor, l’ex premier Naftali Bennett ha ammesso pubblicamente che Israele ha organizzato in passato un’operazione per eliminare un alto ufficiale dei Pasdaran. Farlo, giorni dopo che un alto funzionario dei Pasdaran è stato ucciso e mentre l’Iran giura vendetta è una provocazione e un messaggio evidente. Una fonte del mondo diplomatico riferisce a Formiche.net che, secondo le intelligence israeliane, i Pasdaran nelle ultime settimane avrebbero accelerato i trasferimenti di armi di precisione a Hezbollah in vista di un possibile scontro su larga scala con Israele — che anche per questo starebbe martellando in Siria, che fa da hub logistico per queste scambi.



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