Il riverbero della crisi internazionale pesa su ogni cosa, riducendo le possibilità di sviluppo. Si dice che l’Europa corra il rischio della deindustrializzazione. Intrappolata, com’è, tra la perdita di investimenti verdi a favore degli Usa, l’aumento delle importazioni di veicoli elettrici dalla Cina e quello dei prezzi dell’energia dopo l’invasione dell’Ucraina. Se questo è vero per l’intera Europa, Germania in testa, può non esserlo per la seconda grande manifattura del continente, qual è l’Italia? L’analisi di Gianfranco Polillo
Quello che ci lasciamo alle spalle è l’anno della svolta? L’anno del grande cambiamento che dischiude una nuova fase delle relazioni economiche, sociali e politiche: tutte da decifrare? Fosse così, l’Europa avrebbe sbagliato nel progettare le nuove regole del Patto di stabilità, con quelle loro rigidità intrinseche. Fondamenta costruite sul letto di un fiume sul procinto di esondare. E l’Italia avrebbe sbagliato due volte evitando di ratificare il Mes, con l’idea che una simile decisione avrebbe solo favorito le banche tedesche. Una tesi tutta da dimostrare.
Secondo gli ultimi stress test della Bce l’Italia è indubbiamente meglio posizionata, ma non esente da rischi. Nello scenario di base al 2025, il Cet 1 (Common Equity Tier 1 Ratio), vale a dire il rapporto “fondi propri – attività ponderate per il rischio”, consentirebbe alle banche italiane di superare quelle tedesche (+1,3 per cento). Ma in condizioni avverse vi sarebbe una situazione di sostanziale parità: 11,3 % a Berlino, 11,7% a Roma. Il che dimostrerebbe il nostro assunto iniziale. Ed allora la speranza è che le catastrofiche ipotesi, alla base dello scenario avverso (meno 6 punti di Pil in 3 anni), siano solo il frutto di un eccesso di zelo.
Questi brevi cenni fanno comprendere quanto sia importante cercare di periodizzare il pregresso, per individuare quei punti di svolta che hanno condotto alla situazione attuale. La mente va subito al 1972, che segnò la storica visita di Richard Nixon, presidente degli Stati Uniti, in Cina. L’inizio del disgelo e l’avvio, ma ci vollero ancora degli anni, del processo di globalizzazione. Una grande svolta nelle relazioni internazionali che comportò, come sempre capita, vantaggi e svantaggi. Da un lato il superamento, per milioni di persone, delle precedenti condizioni di inedia e sottosviluppo: soprattutto nell’Est asiatico, ma anche in India e in Africa (si veda in proposito il bel saggio di Federico Rampini: “La speranza africana”). Dall’altro la crisi del modello sociale in Occidente, con la forte penalizzazione, specie negli anni più recenti, del ceto medio. Divenuto terra di conquista delle più improvvisate teorie politiche.
Lo sviluppo di quel processo fu tutt’altro che lineare. Punteggiato da crisi e ripiegamenti, comunque risolti da maghi – si pensi ad Alan Greenspan – non sempre all’altezza della loro fama. Gli anni ruggenti – il periodo della cosiddetta “iperglobalizzazione” secondo la definizione di Dani Rodrik – segnarono il passaggio dal secondo al terzo millennio. Per poi dar luogo a quella “slowbalisation” (globalizzazione lenta), così efficacemente descritta dall’Economist. Il momento di cesura, di passaggio da una fase all’altra, fu rappresentato dalla “Global financial crisis (Gfc)”: come ormai gli analisti di mezzo mondo hanno catalogato gli anni 2007-08, caratterizzati dal fallimento della Lehman Brothers e dalla vicenda dei suprime americani. A sottolinearne il suo carattere sistemico con i suoi riflessi mondiali: dal Medio Oriente (le primavere arabe) alla svolta di Putin in politica estera.
Caratteristica dell’intero periodo era stato il mutamento degli assi cartesiani dello sviluppo. Secondo il database del Fmi, nel decennio 1980/1990, il tasso di crescita delle economie emergenti era stato identico a quello delle economie avanzate. Ma, a partire da quell’anno, la progressiva divergenza era diventata sempre più marcata. Per cui, alla fine dello scorso anno, mentre le economie emergenti avevano cumulato un tasso di sviluppo pari a 4 volte e mezzo i livelli del 1980; le economie avanzate erano cresciute di meno della metà. Uno spiazzamento progressivo che aveva comportato il conseguente mutamento dei rapporti di forza, non solo sul terreno economico e finanziario. Con le periferie di una volta destinate a contendere il primato delle vecchie capitali occidentali.
Un fenomeno di questa portata non poteva rimanere confinato nella sottostante struttura. E, infatti, i suoi riflessi politici, seppure nei termini più drammatici, si sono visti sui teatri di guerra che stanno insanguinando i confini dell’Europa: sia ad est nella “martoriata” Ucraina, che a Sud nella guerra scatenata da Hamas, con delega iraniana, nei confronti di Israele. Punte di un iceberg vistoso, la cui piattaforma affonda tuttavia le sue radici nelle acque limacciose della storia. Ed ecco allora il dinamismo dei Brics (Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa), ieri poco più di una bocciofila, oggi protagonisti di una vicenda che punta a fare da contraltare al G7 e contrapporsi all’intero Occidente. Nel tentativo di erigersi a difensori del Sud Globale: Paesi dal passato coloniale, in parte favoriti dal processo di globalizzazione degli anni precedenti, ma in altri casi soggetti a un sottosviluppo di ritorno.
Sono gli assetti geopolitici del mondo a preoccupare maggiormente gli analisti. La rivitalizzazione del vecchio asse strategico – quello tra Cina e Russia – che caratterizzò gran parte delle vicende del ‘900 (altro che “fine della storia”), rappresenta, pur tra divergenze tattiche e elementi di conflitto, un cambiamento tellurico. Ha spostato la bilancia del potere. Creato le condizioni che hanno consentito alle varie potenze regionali (Iran, Arabia saudita, Turchia, senza trascurare ciò che avviene nel Sahel) di perseguire obiettivi destinati ad accrescere ulteriormente la frammentazione della realtà internazionale. Senza contare, infine, l’incognita indiana, il cui peso specifico è tale da spostare ancor di più l’asse degli equilibri strategici. E porsi come ponte ed argine tra le spinte dei più intransigenti contro l’Occidente e coloro che, invece, guardano con rinnovato sospetto alla possibile egemonia degli orfani del socialismo reale.
Nel frattempo il subbuglio economico è decisamente cresciuto. Le vecchie catene del valore, basate su un principio di cooperazione a livello internazionale, si sono interrotte. Difficile fidarsi di chi, con il ricorso alle armi, vorrebbe imporre la propria supremazia. Ed ecco allora che quei vecchi fili, oggi interrotti, dovranno essere riannodati in un orizzonte nuovo, segnato da pressanti problemi di sicurezza. Spostando produzioni e rifornimenti strategici dai vecchi luoghi di produzione in terre più sicure. Un grande sforzo collettivo per attivare un difficile processo di riconversione produttiva, per gettare le basi di un diverso ordine mondiale, in cui le auspicabili nuove regole cooperative possano continuare ad avere diritto di cittadinanza. Un processo lungo, difficile, particolarmente costoso e tutt’altro che scontato. Nel frattempo scordiamoci che il commercio internazionale possa svilupparsi ai tassi e con l’intensità del passato.
In una realtà così complessa, dai movimenti accelerati, resta l’immobilismo dell’Europa. La sua incapacità di adeguare il proprio passo a quel che accade a ridosso dei propri confini. Finora non si è tirata indietro, nel sostenere insieme alla Nato, la resistenza del popolo ucraino, contro l’invasore russo. Ma le crepe, che si intravedono in controluce, sono tante. E rischiano di trasformarsi in vere e proprie fratture, specie se oltre Atlantico, le prossime elezioni americane dovessero riproporre quella vecchia politica isolazionista, che fu caratteristica non secondaria della storia di quel grande Paese.
Di fronte ad uno scenario così incerto, l’Italia rischia di rimanere incagliata su un fondale sabbioso. Già nel prossimo anno si colgono i primi segnali delle maggiori difficoltà: con un tasso di crescita che sarà inferiore seppur di qualche decimale, almeno secondo le previsioni, alla media dell’Eurozona. Quando nel 2023 si era registrata una situazione di parità. Né si può dire che tutto ciò sia colpa degli italiani. Che lavorano, producono si impegnano in una difficile battaglia quotidiana. Le esportazioni stanno andando più che bene. Meglio dell’intera Eurozona, per non parlare della Francia e della Germania. La produttività è in forte crescita. Inferiore solo a quella spagnola. Ma tutto ciò non è servito a trainare l’economia oltre quei modesti risultati cui si è fatto cenno.
Pesa su ogni cosa il riverbero della crisi internazionale che riduce le possibilità di sviluppo. Considerato il ruolo svolto dall’estero, ai fini della crescita complessiva del Paese. A partire dal 2013, al ristagno dei consumi interni ha fatto da contraltare il suo peso accresciuto, che ha svolto un ruolo di supplenza e garantito risultati seppure poco esaltanti. Uno schema che risulta in qualche modo pregiudicato dalle nuove tendenze dell’economia internazionale. Si dice che l’Europa corra il rischio della deindustrializzazione. Intrappolata, com’è, tra la perdita di investimenti verdi a favore degli Stati Uniti, l’aumento delle importazioni di veicoli elettrici dalla Cina e quello dei prezzi dell’energia dopo l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia. Se questo è vero per l’intera Europa, Germania in testa, può non esserlo per la seconda grande manifattura del continente, qual è l’Italia? Facile rispondere. Esserne consapevoli per essere reattivi e, se possibile, resilienti.