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Il prisma della crisi

Otto milioni e mezzo di disoccupati su scala globale, un crollo di quattro punti e mezzo percentuali del PIL e di quasi sei nella produzione industriale delle economie avanzate nel momento di picco di fine 2008, per tacere delle ricadute reali e psicologiche della paralisi dei mercati finanziari e del credito planetari. Con i suoi effetti, la crisi ha evocato scenari apocalittici sui destini non solo dell’economia, ma anche della sicurezza e degli equilibri politici mondiali. Sono stati tracciati paragoni con la Grande Depressione del 1929 e con il suo impulso alla formazione dei totalitarismi in Europa e dell’imperialismo giapponese in Asia.
Imponendo massicci interventi dei governi, essa ha spinto a decretare, su un piano più filosofico-politico, la fine del modello liberista statunitense così come eravamo abituati a concepirlo: più che una semplice inclinazione verso modelli europei, addirittura la rivincita della storia su un sistema che, abbattuto il comunismo insieme al muro di Berlino, si pensava vi avesse posto la parola «fine».
In entrambi i casi, si tratta di analisi che non tengono conto della sostanziale innovazione costituita da un sistema economico non più ispirato a modelli concorrenti (liberali o pianificati), ma caratterizzato dall’interdipendenza tra un maggior numero di Paesi e mercati, non tutti necessariamente in crisi. Per quanto banale possa apparire, è proprio la globalizzazione a scongiurare oggi, diversamente da ottant’anni fa, politiche protezionistiche o di espansione “imperialista” e ad impedire paragoni con le derive degli anni Trenta del secolo scorso.
 
Una’interrelazione evidente è quella tra lo scoppio della crisi economica in America e la storica vittoria di Barack Obama. Vi è stato chi, con una formula ad effetto, ha affermato che se il fallimento di Lehman Brothers fosse avvenuto sei mesi prima, Obama avrebbe perso contro la Clinton, mentre se fosse avvenuto sei mesi dopo avrebbe perso contro McCain. Il fatto che il bacino elettorale tradizionale di Hillary Clinton risiedesse negli ispanici, negli asiatici e nella classe media bianca (le categorie più colpite) rende convincente la tesi di una cruciale complicità tra i tempi della crisi e la capacità di Obama di aggiudicarsi le primarie. Quanto alle presidenziali, il nesso di causalità appare in tutta la sua chiarezza quando si esaminino i sondaggi dell’epoca sui problemi cui il futuro Presidente avrebbe dovuto riservare priorità: nel picco del collasso finanziario americano (settembre-ottobre 2008, a distanza di poche settimane dalle elezioni) il 68 per cento degli elettori americani metteva al primo posto la crisi economica, mentre terrorismo e sicurezza -cavalli di battaglia di McCain- costituivano la priorità solo per il 10 per cento.
  
Se la crisi ha sancito il ritorno al multilateralismo del G-20 e portato Barack Obama alla Casa Bianca, ha anche dettato l’esigenza di accelerare politiche mirate ad affrontarne cause ed effetti, a partire dagli Stati Uniti da dove si era propagata. Al di là di continuità inevitabili nel breve-medio periodo (evidenti quelle nelle figure chiave, Geithner e Bernanke, e negli strumenti di primo soccorso, vale a dire lo stimulus package e il programma TARP di assorbimento dei titoli “tossici” dai portafogli delle banche), la crisi ha affrettato la definizione e la progressiva applicazione di strategie di politiche economiche di più chiara matrice democratica e di orientamenti internazionali volti al rafforzamento del dialogo strategico con la Cina avviato da Bush nel 2006. L’obiettivo è diretto alla causa stessa del fenomeno, vale a dire lo squilibrio del modello di crescita americano trainato dai consumi interni e alimentato dalle importazioni dall’estero, specie dalla Cina. Obama vi ha opposto politiche riformiste, a partire da quella sanitaria, suscettibili di aumentare il reddito disponibile delle famiglie in luogo della loro capacità di indebitamento, e, obiettivo se possibile ancor più ambizioso, il raddoppio delle esportazioni nel giro di cinque anni. Vi ha unito l’intensificazione dei rapporti con Pechino, di cui l’attualità ci mostra i pragmatici frutti nell’accordo sulla sospensione del giudizio sulla manipolazione dello yuan in cambio della ripresa del dialogo sulle sanzioni all’Iran, con l’obiettivo condiviso di invertire le dinamiche delle due maggiori economie del mondo, nella consapevolezza che i loro squilibri sono all’origine del problema e che risolverli è nell’interesse di tutti (e due).
 
La crisi è però anche un prisma attraverso il quale osservare e interpretare la realtà internazionale da essa stessa plasmata, nonché i protagonisti dei suoi equilibri presenti e futuri. In questo senso, dovremmo concentrare l’attenzione, oltre che sugli Stati Uniti, anche sulla Cina e l’Europa.
Crescere al 10 per cento annuo mentre gli altri affrontano la peggiore recessione degli ultimi ottant’anni può ragionevolmente indurre a pensare che ad uscire vittoriosa dalla tempesta sia stata la Cina. Ma tanta eccezionalità ha anche sollevato il velo sui limiti del modello cinese che, senza voler ricorrere agli indicatori di reddito pro-capite, deve misurare la propria sostenibilità con sfide di portata titanica quali l’impianto di efficaci politiche previdenziali che consentano di spezzare il ciclo dell’accumulazione del risparmio privato, enormi investimenti in termini di formazione delle risorse umane, lo sviluppo di industrie strategiche quali quella energetica e medico/farmaceutica. Della necessità di uno sviluppo interno, che presuppone peraltro la difficile conciliazione tra economia di mercato e Stato-partito, sembra essere cosciente più di ogni altro la stessa leadership cinese, incalzata proprio dalla crisi a convergere con gli Stati Uniti sull’obiettivo strategico già citato di invertire il modello export-oriented, ma ben ferma nella volontà di farlo prendendosi tutto il tempo necessario, senza ambire a far sentire la propria voce nel mondo prima che il risultato sia acquisito.
Viceversa, la bufera che dalla Grecia ha colpito l’Euro, le tradizionali divisioni interne amplificate dalla crisi valutaria, il deludente accordo al ribasso sulle nomine istituzionali previste dal Trattato di Lisbona hanno dato voce ai detrattori dell’Europa e a coloro che hanno visto negli effetti della crisi l’ulteriore dimostrazione della sua irreversibile decadenza. Diversamente da quanto avviene in Cina e in America, quella di denunciare il declino continentale è una spiccata capacità auto-afflittiva degli stessi Europei, restii a pensare che, come osserva Andrew Moravcsik, Professore di Scienze Politiche e Direttore dello European Union Program all’Università di Princeton, l’Europa è incontestabilmente la seconda superpotenza mondiale in termini di reddito pro-capite, spesa e capacità di intervento militare, finanziamenti allo sviluppo. Quel che più conta, è che è destinata a restare in questa preminente posizione geopolitica per almeno altre tre generazioni, indipendentemente dalla presunta inefficacia -tutta da dimostrare- della sua struttura istituzionale, vale a dire l’Unione Europea.
Casomai, la crisi ha mostrato la validità dei modelli europei di intervento regolato dei governi nel mercato e la sostanziale lungimiranza nel condividere politiche di apertura e liberalizzazione delle economie, oltre che di rigore valutario e di bilancio. Le contingenze hanno costretto a derogarvi, ma non andrebbe dimenticato che esse costituiscono gli insostituibili strumenti di quell’obiettivo strategico in termini di sicurezza, stabilizzazione e crescita economica (sostenibile e ridistributiva) costituito dall’allargamento.
 
Sull’impatto della crisi e i suoi effetti, per tutti coloro che ne sono stati colpiti, restano interrogativi aperti di non poco conto, specie in termini di exit strategy: la vastità degli interventi governativi e l’espansione dei relativi debiti imporrà necessariamente scelte impopolari (in termini di riduzione di spesa e di politiche fiscali), tanto più dolorose quanto più esse dovessero avvenire senza il conforto di una consolidata crescita economica.
Insieme a questi interrogativi, restano quindi margini perchè essa abbia ancora impatto sulle economie mondiali e sulle leadership chiamate a governarle. Tuttavia, si può ragionevolmente ritenere che a questo primo vero e temibile banco di prova, l’equilibrio internazionale multipolare e globalizzato abbia saputo reagire con un efficace istinto di preservazione.
(con la collaborazione di Dante Brandi)
 
 


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