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Le quattro capitali che pressano Israele. Washington, Doha, Riad e Aia

C’è un piano negoziale del Qatar, che Hamas sta tatticamente rifiutando, mentre il segretario Blinken procede con i colloqui (tra Mazen, Netanyahu e stakeholder regionali). Intanto la questione per Israele diventa strategica e non riguarda solo la Striscia, ma i suoi rapporti col resto del mondo

Il segretario di Stato statunitense, Antony Blinken, in questi giorni di nuovo in Medio Oriente, ha parlato con il presidente dell’Autorità nazionale palestinese, Abu Mazen, e concorda sul più chiaro dei punti sul tavolo: “Avete diritto a uno Stato”. E però, ci sono due grandi incognite sopra gli oltre ventitré mila morti di Gaza e la destabilizzazione regionale: la prima, come chiede anche Blinken, serve una riforma del sistema politico e amministrativo dell’Autorità (come?); la seconda la tira in ballo Mazen che chiede al capo della diplomazia americana — l’uomo che più di ogni altro si è impegnato per trovare una soluzione a conflitto e crisi — se pensa che Israele “ci darà mai uno Stato”, dato che “non ci danno nemmeno le nostre tasse”.

Israele trattiene le entrate fiscali che arrivano dalla Cisgiordania e il tema è stato già oggetto di una conversazione animata tra Joe Biden e Benjamin Netanyahu nei giorni scorsi. Blinken concorda sui fondi, ma non può chiaramente rispondere e garantire sul resto. Non adesso, con la sopravvivenza di una componente politica israeliana (tra cui quella di Netanyahu stessa) che si basa sullo sfruttare lo shock psico-sociale prodotto dall’attacco di Hamas del 7 ottobre — che ha aperto alla risposta violentissima di Israele. Non adesso che Hamas ha perso il controllo della Striscia, invasa dai soldati delle Idf, ma potrebbe tornare se arrivasse un cessate il fuoco immediato (con ritiro contemporaneo delle Israeli Defense Forces).

Per questo il nuovo piano qatarino — stop ai combattimenti e ritiro, esilio a Doha della leadership di Hamas, rilascio graduale degli ostaggi catturati il 7 ottobre dai terroristi palestinesi — potrebbe non essere considerato funzionale a Gerusalemme. Che però lo sta valutando. Invece è già stato respinto dalla leadership di Hamas, perché innanzitutto teme di essere sostituita dopo l’esilio: è una questione di potere interno, che travalica la fase di guerra, e anche l’idea americana di far amministrare la Striscia dall’Anp non è accettata nei fatti. Più di facciata la questione ostaggi: per Hamas il rilascio dipende dalla volontà di Israele di liberare tutti i prigionieri palestinesi. Chiaramente Hamas è consapevole che la sua è una richiesta impossibile, ma stressa il dossier perché sa anche che la questione-ostaggi crea imbarazzo al governo israeliano e malcontento tra i cittadini, la cui aliquota di esausti della guerra sta crescendo anche perché il conflitto complica la liberazione dei rapiti (e la loro cattura è stata uno shock collettivo tanto quanto i morti). In definitiva, Hamas sa che gli ostaggi sono uno spietato punto di forza negoziale.

C’è poi un altro elemento. Blinken sarebbe arrivato da Netanyahu martedì con un messaggio da parte della leadership saudita (siamo alla quarta visita dell’americano, e questo ultimo incontro viene raccontato da chiunque come molto teso, lontano dalla solidarietà e dalla compassione dei primi due viaggi). L’erede al trono Mohammed bin Salman lo avrebbe detto chiaramente: niente normalizzazione dei rapporti con Israele finché c’è la guerra e soprattutto senza uno Stato palestinese. È un messaggio duro: Riad vuole quella normalizzazione come obiettivo strategico, ma la vicenda del 7 ottobre ha creato un inciampo tattico non indifferente. Diversamente uno Stato palestinese non è tra gli interessi e gli obiettivi reali del regno, che però non può passare sopra a ciò che accade ed è accaduto. Dunque, in posizione di forza, passa la palla a Israele — che condivide l’interesse strategico sulla normalizzazione e si impantana tra necessità interne e proiezione internazionale.

È una situazione che Israele non può ignorare, anche perché nello stesso messaggio bin Salman ha parlato anche di post-bellico, di aiuto alla ricostruzione (che potrebbe essere inteso non solo in senso economico, ma anche di governance). A maggior ragione, l’invito saudita non può essere ignorato visto il contesto. Oggi inizia il processo all’Aia con cui il Sudafrica ha portato Israele davanti alla Corte di Giustizia Internazionale, accusandolo di violare la Convenzione sul Genocidio delle Nazioni Unite per azioni a Gaza. Pretoria agisce per interessi propri (vuol darsi un tono sfruttando la situazione) e non solo cerca una sentenza sul genocidio, ma chiede anche alla corte di imporre misure provvisorie per fermare le operazioni militari. Ci riuscisse, potrebbe rivendicare un successo internazionale (da vendere tra i Brics e agli occhi del Global South che vuole lo stop delle armi, sebbene non sia una priorità cruciale).

Esperti di diritto internazionale suggeriscono che la Corte potrebbe decidere su tali misure entro poche settimane, potenzialmente chiedendo un cessate il fuoco o corridoi umanitari. Israele, presente all’udienza con una fitta serie di iniziative collegate (tra cui la volontà di mostrare informazioni di intelligence finora riservate), sostiene che le sue azioni costituiscano legittima difesa dopo l’attacco di Hamas. Netanyahu ha parlato anche mercoledì della conformità con il diritto internazionale dell’invasione della Striscia, ma c’è forte preoccupazione per un possibile danno alla reputazione internazionale di Israele se la Corte dovesse decidere contro di esso. Soprattutto da parte di chi ha forti rapporti Israele (e ne sta difendendo ogni diritto e azione) e di chi vuole costruirne di tali.



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