Due personaggi italiani sono al centro della scena politica europea. La stessa Meloni non può non vedere in questa combinazione astrale il segno di un forte riposizionamento dell’Italia. Altro che malato d’Europa! L’analisi di Gianfranco Polillo
L’annuncio di dimissioni di Charles Michel dalla carica di presidente del Consiglio europeo ha suonato la sveglia, accelerando i tempi della transizione. Nella partita, tutti i principali soggetti: dalla stampa (specie dopo l’intervento del Financial Times in appoggio alla candidatura di Mario Draghi) alle principali cancellerie europee, passando per le forze economiche e sociali. In un crescendo di prese di posizione e di previsioni. Per tutti, la preoccupazione sui destini futuri del Vecchio Continente in quel grande risiko, che sta caratterizzando l’evoluzione della geopolitica mondiale.
Durante la vecchia “guerra fredda”, stella polare della politica europea era stato il “mercantilismo”. L’idea, cioè, di puntare soprattutto sullo sviluppo delle relazioni commerciali e finanziarie, lasciando ad altri l’onere del controllo politico della situazione internazionale. Alla testa di questo processo era stata soprattutto la Germania, sia prima che dopo l’unificazione del Paese. Spesso in dura polemica con gli stessi Americani, che le rimproveravano un ruolo fin troppo passivo. Esclusivamente concentrato sulla difesa dei propri interessi di bottega. La progettazione di un’Europa diversa era invece affidata soprattutto alla Francia. Una cultura più dirigista, sull’onda di un vecchio colbertismo, capace di prefigurare, con largo anticipo, come nel caso della moneta unica, il futuro di questa parte di Mondo.
Il passaggio del testimone coincise con la nascita dell’euro. Il compromesso realizzato fu quello di uno scambio: la riunificazione tedesca, subordinata al varo della nuova moneta, ma, a condizione, che fosse la Germania a controllarne la relativa gestione, nel segno della stabilità finanziaria. Con l’ovvia conseguenza di segnare l’inizio di una nuova fase. Quella in cui l’asse franco – tedesco (segnato dalla supremazia di Berlino) avrebbe, di fatto, condizionato l’evoluzione politica dell’Unione.
Cosa rimane di quell’esperienza? Soprattutto macerie, a parte l’euro. Quel vecchio vaso di coccio, tra i due vasi di ferro (Usa e Urss), come allora l’Europa era definita, si è frantumato. E oggi, di fronte alle grandi trasformazioni epocali, l’Unione appare essere solo un nano politico, senza per altro aver avuto la capacità di difendere i vecchi gioielli di famiglia.
Tanti i dati in grado di certificare il suo grande declino. “Dal 2001 ad oggi – è scritto nel report che il presidente dell’Ert (European Round Table of Industry), Jean-Francois van Boxmeer, ha consegnato a Mario Draghi, nell’incontro di Milano – l’Europa ha perso il 30 per cento di quote di mercato” a livello mondiale. In termini di valore aggiunto la caduta è stata dal 20 al 14,3 per cento. Una perdita simile a quella degli Usa, che, tuttavia, stanno reagendo. I fondi pubblici stanziati per favorire gli investimenti per la riconversione energetica sono pari a 738 miliardi di dollari. In Europa si pensa invece alle Nuove regole del Patto di stabilità, mentre in Cina, nello stesso periodo, il valore aggiunto è cresciuto dall’8 al 27,3 per cento. Un ombra inquietante su futuri destini del Mondo.
Quando si ragiona sul futuro della politica europea non si può prescindere dal contesto al quale si è fatto cenno. Tentare di farvi fronte richiede, come minimo, due condizioni: un programma d’intervento che affronti i nodi ancora non risolti della transizione non solo energetica, ma della più generale riconversione produttiva, nel segno di una rinnovata sicurezza; una classe dirigente capace di misurarsi con temi così impegnativi. Un primo assaggio si è avuto nell’incontro, a porte chiuse, tra lo stesso Draghi, i Commissari europei e la presidente della Commissione, nel seminario che si è tenuto ieri nella campagna di Jodoigne a Sud di Bruxelles. All’indomani dell’incontro con la delegazione ristretta di Business Europe.
Da quel poco che è trapelato, le linee tracciate individuano già un primo percorso, che presuppone un’analisi critica della situazione attuale. “L’economia europea – ha osservato l’ex Bce – ha fatto registrare un progressivo indebolimento, perdendo slancio e cedendo centralità nelle catene dell’offerta”. Da qui “la necessità di definire una roadmap ampia e dettagliata, che identifichi chiaramente priorità, linee d’azione e politiche da mettere in atto nei diversi settori”. Con l’obiettivo di recuperare il tempo perduto e consentire all’Unione di reggere alla concorrenza delle altre grandi aree del Pianeta.
In questo scenario non si potrà fare a meno di tener conto del grado di sviluppo del mercato interno in cui le contraddizioni, nonostante i progressi realizzati, ancora permangono. Basti pensare alla debole struttura del mercato dei capitali o al mancato completamento dell’Unione bancaria. Su questo secondo tema dovrà riferire, com’è noto, Enrico Letta, su incarico della stessa von der Leyen. In un tandem inedito, se si vuole, ma denso di significati politici.
Due personaggi italiani sono, quindi, al centro della scena politica europea. La stessa Giorgia Meloni non può non vedere in questa combinazione astrale il segno di un forte riposizionamento dell’Italia. Altro che malato d’Europa!: come titolava l’Economist solo qualche tempo fa. Le braccia cadono, invece, quando si è risucchiati nella politica interna. Dove si ritrova il peggio di un provincialismo senza tempo. Con leader piccoli piccoli pronti ad azzannarsi nella speranza di lucrare qualche decimale nel grande pallottoliere dei sondaggi. Come se gli italiani fossero incapaci di intendere e volere. E disposti a seguirli nel baratro della perdizione.