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Diplomazia delle parole. Così Biden invia un messaggio a Taiwan (e alla Cina)

I taiwanesi hanno scelto un presidente votando democraticamente per il loro futuro sovrano, anche se le terminologie diplomatiche – che sul dossier sono sostanziali – restano ancora vincolate alla linea classica, che si preoccupa di non alterare le relazioni con la Cina

Una dichiarazione rilasciata “al volo” da Joe Biden – mentre si imbarcava sul Marine One per raggiungere Camp David, dopo meno di un’ora che era stata confermata la vittoria di William Lai alle elezioni taiwanesi – ha attirato particolarmente l’attenzione dei media. “Non sosteniamo l’indipendenza di Taiwan”, ha detto il presidente americano. L’attenzione riservata a queste parole è frutto dell’eccezionale attenzione che i media di tutto il mondo hanno a loro volta affidato al voto. Ma “attenzione!”, non c’è niente di eccezionale dietro a quanto dichiarato da Washington.

Lo conferma un inquadramento di background che un funzionario del dipartimento di Stato ha fornito ai giornalisti sulla posizione americana rispetto a Taipei. Testualmente: “Quando il Presidente Biden ha incontrato il Presidente Xi [Jinping] a San Francisco lo scorso novembre, ha chiarito che la politica degli Stati Uniti nei confronti di Taiwan non è cambiata e non cambierà. Ha ribadito che siamo impegnati nella nostra politica di lunga data di una sola Cina, guidata dal Taiwan Relations Act, dai tre comunicati congiunti e dalle sei assicurazioni”. (Nota: sotto ai vari concetti ci sono i link per approfondire di cosa si sta parlando).

Ancora da quel funzionario: “Ha dichiarato [Biden] che ci opponiamo a qualsiasi modifica unilaterale dello status quo da entrambe le parti. Non sosteniamo l’indipendenza di Taiwan. Sosteniamo il dialogo tra le due sponde dello Stretto e ci aspettiamo che le differenze tra le due sponde siano risolte con mezzi pacifici, senza coercizione, in modo accettabile per le popolazioni di entrambe le sponde dello Stretto. Non prendiamo posizione sulla risoluzione definitiva delle divergenze tra le due sponde dello Stretto, purché siano risolte pacificamente”.

That’s it. La posizione americana segue una traiettoria classica, che resterà guidata da certe dichiarazioni, le quali però saranno abbinate a determinante azioni, come per esempio l’invio di forniture militari. Ossia, tutto resta guidato dalla “ambiguità strategica”, che si semplifica con: a parole si tiene una posizione formale di equilibrio, invece nei fatti quella posizione formale è molto sfumata e Taiwan è un alleato a differenza della Cina (un competitor, per non dire un nemico).

La sottolineature di Biden serve dunque a confermare a Pechino questa posizione, rassicurandolo che quell’ambiguità resterà. E Pechino è consapevole che fa parte del mantenimento dello status quo anch’essa – poi, come spiega su queste colonne Enrico Fardella, il problema è comprendere se e come a Pechino interesserà mantenere quello status quo e per quanto.

Che dicono a Pechino?

È piuttosto pacifico che in questo momento – in cui si sommano la corsa elettorale e la riapertura delle comunicazioni con la Cina – Biden non avrebbe potuto (e dovuto) prendere posizioni differenti. Allo stesso modo, la Cina non poteva (e non doveva) che marcare l’inevitabilità della “riunificazione” con Taiwan. Attenzione: il termine “riunificazione” non è corretto, ma creato dalla narrazione del Partito/Stato, mentre Taiwan non è mai stata unita alla Repubblica popolare cinese.

“Taiwan è la Taiwan della Cina”, ha dichiarato il portavoce dell’Ufficio per gli Affari di Taiwan di Pechino in uno statement riportato dall’agenzia di stampa statale Xinhua, aggiungendo che il Partito democratico progressista – il partito di William Lai e di colei che l’ha preceduto, Tsai Ing-wen, che vince consecutivamente da tre mandati – “non può rappresentare l’opinione pubblica mainstream sull’isola”.

La dichiarazione è frutto del più tetro terrore per Pechino: formato dai nazionalisti del Kuomintang, che si erano rifugiati sull’isola con l’ambizione di riconquistare prima o poi tutto il mainland cinese (e ricreare la loro unica Cina), ora a Taiwan si sta creando una nuova forma di identità nazionale. Dal 1949 a oggi ci sono tre generazioni di cittadini che sono nati nell’isola e cresciuti come taiwanesi – senza sentirsi cinesi. I dati sono chiari, per le rilevazioni della National Chengchi University di Taipei, il 62,8% della popolazione di Taiwan si sente taiwanese punto e basta.

Il voto “non cambierà il panorama di base e la tendenza allo sviluppo delle relazioni tra le due sponde dello Stretto”, ha dichiarato Pechino, confermando che la posizione sulla “realizzazione della riunificazione nazionale rimane coerente e la nostra determinazione è ferma come una roccia” e che la Cina “si oppone fermamente alle attività separatiste che mirano “all’indipendenza di Taiwan” (messo tra virgolette, ndr) e alle interferenze straniere”.

Il problema è che la “riunificazione” pacifica non può avvenire se i taiwanesi non si sentono cinesi, non credono che il loro destino sia quello di finire governati da Pechino e ignorano le pressioni della Cina verso questo. E allora resta solo l’azione forzata, qualsiasi essa sia, e questo per il Partito/Stato è un problema perché a causa di quell’ambiguità strategica non conosce quale potrebbe essere la reazione americana e del resto del mondo – che mantiene la stessa linea statunitense, più o meno.

Il resto del mondo

Mentre il ministero degli Esteri russo ha sottolineato che Mosca continua a vedere Taiwan come “parte integrante” della Cina – posizione sostanzialmente dettata dalla sudditanza russa nei rapporti con la Cina, visto che finora c’erano rapporti tra i due Paesi – l’Ue ha “accolto con favore” le elezioni presidenziali di Taiwan e si è congratulata con tutti gli elettori che “hanno partecipato a questo esercizio democratico”, ha detto Bruxelles in una dichiarazione in cui non è stato menzionato il presidente eletto Lai.

Anche questo è un classico, come la dichiarazione di Biden sul non sostegno all’indipendenza. Per esempio, Londra ha usato una formula in cui si è congratulata con Lai per “la sua elezioni”, senza però definirlo presidente. Tokyo ha utilizzato un ibrido, complimentandosi con Lai per aver vinto “le elezioni presidenziali”, il Canada non ha menzionato Lai.

Poi ci sono delle eccezioni. Per esempio, la Lituania – stretto alleato di Taipei – parla di “lezione a presidente”. Ancora: mentre il ministero degli Esteri francese ha usato le formule classiche senza menzionare Lai, la presidente dell’Assemblée Nationale, Yaël Braun-Pivet ha taggato Lai nella sua dichiarazione su X congratulandosi con lui come “presidente di Taiwan”.

Lo stesso ha fatto Paolo Formentini, vicepresidente della Commissione Esteri della Camera, che in una dichiarazione diffusa da Adnkronos ha chiamato Lai “neo presidente eletto di Taiwan”. Su dossier come quello taiwanese la terminologia è sostanza: quelli di Formentini e di Braun-Pivet sono piccoli passi verso una normalizzazione sostanziale, che passa anche dall’indicare il presidente di Taiwan secondo l’incarico che il suo popolo gli ha conferito democraticamente e scegliendo in base alle proprie volontà sovrane.

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