L’incontro felice degli articoli di padre Pachkov e di padre Sale mi ha fatto capire meglio la complessità e le ricadute di schematismi “bianco o nero” che seguendo i conflitti possono favorire la creazione di un mondo fratturato. È quello che un progetto editoriale produce. Il nuovo corso de La Civiltà Cattolica letto da Riccardo Cristiano
La complessità, va da sé, è complessa e ogni tentativo di semplificarla è destinato a perdersi nel dedalo della sua essenza, pieno di sensi unici o di vicoli ciechi. Ma ci sono attacchi di pezzi giornalistici che in poche parole ci spiegano dove siamo, parlando non del cuore del problema, ma di come il mondo e quindi anche il suo problema più urgente nell’attualità, venga inquadrato e vissuto (o usato) altrove.
È quello che ho pensato leggendo il bellissimo articolo di padre Vladimir Pachkov sul nuovo numero de La Civiltà Cattolica e relativo alla svolta verso oriente della Russia. Scrive il corrispondente de La Civiltà Cattolica da Mosca: “In uno dei suoi programmi televisivi, il professore cinese Zhang Weiwei ha affermato che il Giappone si è staccato dall’Asia per unirsi al mondo occidentale, mentre ora vediamo che la Russia si stacca dall’Occidente per unirsi all’Asia”. Ciò che accade intorno al conflitto di Gaza e a quello ucraino è anche questo.
Padre Pachkov ci accompagna di qui in avanti in una affascinante e rara lettura (per i nostri media) dei nuovi rapporti tra Russia e Islam. Quei rapporti che molti sostenitori di Mosca nostrani ritengono “anatema”, e ci spinge a ritenere chiusa l’epoca di Mosca convinta di essere la Terza Roma, mentre molti qui si ostinano a ragionare così, e altri ancora vedono (trattenendo negli occhi il passato) quel “Terza” più che relativo a Roma relativo all’“Internazionale”, quasi che Mosca comunque abbia un messaggio universale, un tempo di cristianità e poi di rivoluzione proletaria.
L’articolo è importantissimo, per la comprensione della Russia e dell’Islam odierno, e diviene prezioso leggerlo insieme a quello di padre Giovanni Sale sull’effervescenza yemenita, gli attacchi degli Houthi (che molti ritengono non sappiano neanche che esista Gaza, o dove sia).
Tutto questo è il portato di un progetto editoriale che si spiega, o si spiegava, nel suo rapporto con il pontificato di Jorge Mario Bergoglio. Tutto si tiene in questo pontificato e io lo capisco così: la Chiesa è globale. Una Chiesa globale porta il sinodo, la sinodalità, ma porta anche l’ospedale da campo, dove serve accanto alla carità propria del cristianesimo, l’apertura all’umanità negletta propria della sensibilità del Global South e la conoscenza scientifica propria dell’Occidente. Dunque articoli come questi connettono, portano il nostro sguardo al di là del nostro campo, per capire in un mondo globale come i nostri movimenti risultano e ricadono altrove.
Ma una Chiesa globale, unendo, non fa la somma aritmetica di identità in contrasto. Fa crescere una nuova visione, “dal basso”, o per meglio dire “dai bassi”, dai loro incontri. A mio avviso ne unisce le sensibilità, ma vede anche le differenze al loro interno. Dunque non taglia, ma cuce: sia diplomaticamente sia pastoralmente. E questo è assai complesso in un tempo che io, ricordando quando ha scritto Arnold Toynbee, definisco di post-storia. Toynbee capì già tanti decenni fa che nella preistoria eravamo tutti separati ma uguali, poi le scoperte- comunicate con lentezza- ci differenziarono proprio per la lentezza della diffusione delle scoperte umane, e cominciò la storia. Ora che le scoperte si comunicano più velocemente di quanto velocemente emergano, temiamo di essere tornati tutti uguali, e quindi ci rifugiamo nell’identitarismo.
La Chiesa globale, Chiesa pertanto e necessariamente ospedale da campo, si oppone a questo rifiuto dell’altro, e nella sua opzione per la pastoralità può portarci a riconoscere che la diversità esiste anche al nostro interno. Qui entra chiaramente in ballo il discorso della Dichiarazione vaticana sulle benedizioni delle coppie irregolari o omosessuali che lo richiedano. È successo un maremoto. Molte Chiese africane si sono rifiutate di seguire: non lo faranno, mai.
Ma queste Chiese cosa pensano di Mauritania, Sudan, Nigeria settentrionale e Somalia meridionale dove chi appartiene alle comunità Lgbt rischiano la pena di morte? In Gambia, Sierra Leone, Uganda, Kenya, Tanzania, Zambia, si rischia fino all’ergastolo. Pene non altrettanto gravi ma sempre pesanti sono previste nei vastamente cristiani Sud Sudan e Eritrea. Mi interessa di più allora l’accettazione della dichiarazione vaticana da parte della Chiese del Nord Africa, dove la non facile condizione degli omosessuali nel mondo islamico è nota. Questo gesto dei pastori nordafricani aiuterà anche l’islam (e qui sarebbe interessante tornare a padre Pachkov).
Francesco a mio avviso non è il papa della Chiesa del Global South, lo conosce però, e lo porta con sé nella Chiesa globale, dove la pastoralità non si ferma davanti al pregiudizio.
Tutto questo appartiene a me, alla mia lettura di questo pontificato. L’incontro felice degli articoli di padre Pachkov e di padre Sale mi ha fatto capire meglio la complessità e le ricadute di schematismi “bianco o nero” che seguendo i conflitti possono favorire la creazione di un mondo fratturato. È quello che un progetto editoriale produce.
Ma l’articolo sulle benedizioni presente nel fascicolo non fa questo, dice – forse riducendolo troppo nel suo senso ecclesiale e me ne scuso – che non sono obbligatorie. Credo che il dubbio abbia sfiorato pochi. Dopo tanti obblighi, per i fedeli e per i pastori, non ho colto nella Dichiarazione sulle benedizioni il desiderio di inserirne un altro. Ma questo circoscrivere, trattenere, che sa tanto del manzoniano “Adelante Pedro, ma con juicio”, risponde più a preoccupazioni interne che all’esigenza di spiegare una visione, con un progetto editoriale di cui l’informazione ecclesiale ha certamente gran bisogno. Infatti l’adagio manzoniano conteneva anche un’aggiunta finale che spesso si dimentica: “si puedes”.