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Il futuro (roseo) del business verde

L’iperbole numerica si adatta molto bene a descrivere il recente passato e forse ancora di più a interpretare il probabile futuro della green economy. Basti pensare che gli investimenti nel mondo, secondo Bloomberg, sono passati dai 51 miliardi di dollari nel 2004 ai 243 miliardi del 2010. Numeri di enorme rilievo, che però rischiano di sfigurare rispetto agli scenari futuri. Il World energy outlook del 2010, prodotto dall’Agenzia internazionale dell’energia e considerato la fonte più autorevole di previsioni nel settore, mostra che, se si vorranno rispettare gli obiettivi di riduzione delle emissioni di CO2, oltre il 60% degli investimenti che saranno effettuati nella generazione elettrica dal 2010 al 2035 dovrà essere effettuato negli impianti a fonte rinnovabile. Si tratta di una cifra intorno ai 7mila miliardi di dollari di investimenti totali dedicati alle rinnovabili, quasi quanto il Pil annuale d’Italia, Francia e Regno Unito messo insieme. Considerando che l’economia verde comprende anche le rinnovabili termiche (raffreddamento e riscaldamento), l’efficienza energetica e la mobilità sostenibile, settori che dovranno contribuire tutti in misura decisamente superiore ad oggi al raggiungimento degli obiettivi ambientali, il futuro non potrebbe essere più roseo.
 
Tuttavia, l’iperbole dei numeri non solo non ci deve far dimenticare l’importanza di efficacia ed efficienza ma ce le deve imporre con maggiore forza rispetto al passato. Tanto più che buona parte di quei 243 miliardi di dollari investiti nelle tecnologie verdi nel 2010 e una parte consistente di quei 7mila miliardi che potrebbero essere spesi nei prossimi decenni provengono dalle bollette dei consumatori e dalle tasse dei cittadini. Un fatto del tutto normale, visto che stiamo parlando di tecnologie ancora non mature e che consentono di abbattere le diseconomie ambientali di quelle tradizionali. Occorre però ricordare che, dato un certo obiettivo complessivo di abbattimento delle emissioni, non tutti gli strumenti hanno la stessa efficacia a parità di risorse impiegate.
 
Da qui si deve necessariamente partire per un’analisi seria di tipo economico delle cosiddette tecnologie pulite, base indispensabile per corrette scelte di policy nel settore. La prima domanda da porsi dunque è quale paniere di tecnologie verdi corrisponda alla scelta ottimale o comunque più vicina all’ottimo dal punto di vista del benessere. Qui entrano in gioco due fattori: da un lato il minor costo a parità di risultato (in questo caso misurabile come capacità di abbattimento delle emissioni), dall’altro la possibilità di creare attraverso il sostegno pubblico di una singola tecnologia una filiera industriale significativa.
Se prendiamo in esame il primo aspetto, gli studi sembrano concordi nell’attribuire in media all’efficienza energetica il primato in termini di costo-efficacia, seguita dalle rinnovabili termiche e, in ultima posizione, da quelle elettriche. Anche se il costo dell’elettricità prodotta da fonte rinnovabile varia molto a seconda della tecnologia usata. Ad esempio, l’eolico è molto più conveniente, agli attuali costi di mercato, del fotovoltaico. La stessa fonte può essere più o meno conveniente a diverse latitudini (la producibilità di 1 Mw fotovoltaico è superiore in Italia rispetto alla Germania in media di un 40% in più) e in differenti condizioni (ad esempio, la producibilità di un impianto eolico dipende dalle caratteristiche del vento di una determinata area). Le curve dei costi nel tempo sono molto diverse a seconda delle economie di scala e della maturità delle tecnologie.
 
In questo senso, appare paradossale che molti fautori del fotovoltaico sottolineino giustamente che il loro settore ha trend di riduzione più elevati di tutte le altre rinnovabili elettriche (almeno di quelle già a uno stadio commerciale), salvo invocare un aumento della quantità incentivata o delle tariffe incentivanti ora e subito. Sotto il profilo dell’analisi costo-efficacia converrebbe ritardare il ritmo degli investimenti nei settori meno maturi, con riduzioni attese dei costi più elevate, (naturalmente senza abbatterli del tutto, anche perché altrimenti non ci sarebbero economie di scala né spinte verso miglioramenti tecnologici). Tutto il contrario di quello che è avvenuto in Italia, dove il governo, sotto la spinta di una nuova corsa all’oro, nel giro di neppure un anno ha rivisto al rialzo l’obiettivo di capacità installata fotovoltaica, portandolo dagli 8mila Mw del 2020, già raggiunti con ogni probabilità nel 2011, ai 23mila Mw del 2016. A sobbarcarsi i costi della crescita esorbitante dell’ultimo anno saranno i consumatori, che pagheranno in bolletta già dal 2011 circa 3 miliardi di euro e a regime dal 2016 in poi intorno a 6,5-7 miliardi di euro all’anno. Accanto a questi costi, non sembra che i benefici siano stati finora così elevati né da un punto di vista ambientale né da uno industriale, con una filiera fotovoltaica molto meno robusta di altri Paesi.
 
Più in generale, il rapporto Ocse sull’Italia del maggio 2011 prevede che al 2020 il rapporto tra benefici e costi per le rinnovabili elettriche in Italia sarà pari a 0,6. In altre parole, i costi rappresenteranno quasi il doppio dei benefici (corrispondenti alle minori esternalità). Tuttavia, quei numeri potrebbero essere anche peggiori, qualora venissero privilegiate fonti più costose (come è già avvenuto con il peso maggiore del previsto del fotovoltaico) e sistemi di incentivazione peggiori dell’attuale (fatto da non escludere, visto l’imminente sostituzione dei certificati verdi con tariffe feed-in). Meglio, secondo l’Ocse, sarebbe spostare il baricentro degli investimenti verso le rinnovabili termiche e soprattutto l’efficienza energetica.
Spetta all’Italia scegliere l’iperbole numerica da privilegiare: quella dei costi pagati da famiglie e imprese oppure quella dei benefici ambientali e industriali. Cerchiamo però di imparare dagli errori del passato e da quanto stanno facendo gli altri Paesi. Magari per provare una volta tanto a fare meglio.


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