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Soluzione a due Stati, sanzioni, tregua. Pressioni Usa su Netanyahu

Soluzione a due Stati, sanzioni contro i coloni, tregua per riavere gli ostaggi: gli Usa pressano il premier Netanyahu. Per Washington la guerra si allunga e i problemi aumentano (anche in vista di Usa2024). Londra e una lettera di funzionari europei arrivano in supporto alle pressioni

Gli Stati Uniti hanno piazzato un combinato disposto di misure di pressione davanti al primo ministro Benjamin Netanyahu con cui marcare il perimetro del prossimo viaggio del segretario di Stato in Israele. Sarà la quinta volta che Antony Blinken si recherà nel Paese e nella regione dopo il 7 ottobre — data terribile che ci ricorda come la stagione di guerra sia stata avviata dall’attacco di Hamas, a cui successivamente Israele ha risposto con altrettanta violenza.

Tanto per iniziare, Blinken ha chiesto al dipartimento di Stato di condurre una revisione e presentare opzioni politiche sul possibile riconoscimento statunitense e internazionale di uno Stato palestinese dopo la guerra a Gaza.

Per decenni, la politica degli Stati Uniti è stata quella di opporsi al riconoscimento della Palestina come Stato sia a livello bilaterale che nelle istituzioni delle Nazioni Unite e di sottolineare che lo Stato palestinese dovrebbe essere raggiunto solo attraverso negoziati diretti tra Israele e l’Autorità Palestinese. Ma l’invasione di Gaza, i quasi trentamila morti (e l’eco internazionale), le capacità operative (tattiche e strategiche) raggiunte da Hamas, gli attuali equilibri regionali (dal Golfo all’Iran), la forza della competizione tra potenze (con il raggruppamento revisionista che non esita a sfruttare la situazione a proprio vantaggio) segnano la necessità di prepararsi a un (possibile?) rimodellamento.

Ufficialmente non c’è stato alcun cambiamento di visione da parte degli Stati Uniti, ma che queste notizie siano arrivate ai media statunitensi, in questo momento, serve anche per inviare un messaggio: qualcosa potrebbe cambiare.

Per il democratico, la sfida oltre che di carattere internazionale, è anche molto delicato sul piano interno. Davanti a un Netanyahu che ha scoperto le carte — dichiarando che nessuno stato palestinese avrà luce sotto il suo governo — Joe Biden deve agire in equilibrio. C’è un fronte progressista del suo partito che chiede misure severe contro il principale alleato americano in Medio Oriente (in nome di una visione ideologica sui diritti internazionali e umani), ma c’è anche la componente ebraica statunitense che ha finora accolto favorevolmente la strenua posizione pro-Israele del presidente (si tratta di voti pesanti, molto corteggiati anche dai Repubblicani).

Contemporaneamente, gli Stati Uniti hanno imposto sanzioni a quattro coloni israeliani, con il presidente Biden che ha affermato come la violenza contro i civili palestinesi in Cisgiordania abbia raggiunto livelli intollerabili. Le sanzioni di questo genere sono una mossa rara degli Stati Uniti contro gli israeliani, che arrivano non solo prima del nuovo viaggio di Blinken, ma anche insieme alla visita elettorale di Biden in Michigan, dove molti nella considerevole comunità araba americana hanno espresso rabbia per il suo sostegno a Israele, e prima della sobria cerimonia che oggi (venerdì 2 febbraio) sarà riservata all’arrivo dei corpi dei tre militari americani rimasti uccisi in un attacco delle milizie filo-iraniane in Giordania — evento che è parzialmente un effetto collaterale della guerra nella Striscia.

“La situazione in Cisgiordania, in particolare alti livelli di violenza dei coloni estremisti, spostamento forzato di persone e villaggi e distruzione di proprietà, ha raggiunto livelli intollerabili e costituisce una grave minaccia per la pace, la sicurezza e la stabilità”, ha detto Biden in un ordine esecutivo che pone le basi per le azioni degli Stati Uniti, già minacciate in precedenza. Non è poco se si considera che porzioni estremiste del governo Netanyahu stanno usando la situazione per la loro narrazione e per avviare modifiche dello status quo sui territori (e covano piani anti-palestinesi per Gaza).

Il terzo fronte, dopo soluzione (a due Stati) e sanzioni, su cui gli Stati Uniti pressano Bibi è la tregua. La mediazione di Egitto e Qatar, col supporto di alcuni Paesi europei, sta procedendo, ma non trova sbocco conclusivo – nonostante ogni tanto escano annunci, parte essi stessi delle dinamiche negoziali. C’è una proposta “a tre fasi” – preparata a Parigi dalle intelligence egiziane, qatarine, israeliane e statunitensi – che dovrebbe portare alla liberazione degli ostaggi rapiti dai guerriglieri di Hamas durante l’assalto del 7 ottobre in cambio di 30 prigionieri palestinesi (catturati negli anni passati da Israele) per ogni ostaggio.

Per ora manca il consenso di Hamas, che vuole “garanzie regionali e internazionali” e da oggi chiede l’inclusione della Russia nella fase di scambio dei detenuti. È un passaggio problematico che probabilmente Washington vorrebbe evitare, ma la non inclusione di un cessate il fuoco permanente da parte di Israele non dà garanzie sufficienti al gruppo combattente, che cerca di sfruttare la situazione caoticizzandola. La pressione americana riguarda anche questo: gli Stati Uniti sono ormai consapevoli che Israele non potrà raggiungere l’obiettivo di debellare Hamas, e la continuazione della guerra è un danno generale.

Non bastasse, arrivano altre pressioni laterali. Il ministro degli Esteri britannico, David Cameron, ha fatto sapere che il suo Paese potrebbe riconoscere ufficialmente uno stato palestinese dopo un cessate il fuoco a Gaza senza aspettare l’esito di quelli che potrebbero essere anni di colloqui tra israeliani e i palestinesi su una soluzione a due Stati. Risposta violenta da parte del ministro della Diaspora israeliano, Amichai Chikli: “Un saluto a David Cameron, che vuole portare la ‘Pace nel nostro tempo’ e concedere ai nazisti responsabili delle atrocità del 7 ottobre un premio sotto forma di uno Stato palestinese come segno di riconoscimento per l’omicidio di bambini nelle culle, lo stupro di massa e rapimento di madri con i loro figli”. “La marcia della follia”, chiosa l’israeliano evocando il libro di Barbara Tuchman che ruota attorno a uno dei paradossi più convincenti della storia: il perseguimento da parte dei governi di politiche contrarie ai propri interessi (il Cavallo di Troia, per capirci).

E infine, ancora: più di 800 funzionari dell’Unione europea e degli apparati degli Stati Uniti hanno inviato una lettera ai propri governi per denunciare la guerra condotta nella Striscia di Gaza, definendola “una delle peggiori catastrofi umanitarie di questo secolo”. Nel documento, dal titolo “È nostro dovere parlare quando le politiche dei nostri governi sono sbagliate” e fatto avere al New York Times, i funzionari Ue e Usa denunciano le politiche pro-israeliane che “indeboliscono” la “posizione morale” dei propri Paesi nel mondo.



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