Dopo il cambio del vertice militare a Kyiv, alla vigilia del secondo anniversario dell’inizio della fallita invasione russa, l’attenzione è tutta rivolta ai decisivi sviluppi della guerra nei prossimi mesi. Epilogo sanguinoso anche in Medio Oriente per i combattimenti che infuriano a Gaza. L’analisi di Gianfranco D’Anna
Bilanci e anniversari di guerra che si intrecciano fra l’Ucraina e Gaza. A Kiev e Mosca più che il secondo anno della fallita invasione scatenata da Vladimir Putin, ci si accinge a commentare l’inizio della terza annata di massacri e bombardamenti. “Non è ancora morta la gloria dell’Ucraina, né la sua libertà, a noi, giovani fratelli, il destino sorriderà ancora” intoneranno in lacrime cantando orgogliosamente l’inno nazionale, nella capitale e nelle città ucraine martoriate dai missili, dai droni e dall’artiglieria dell’armata russa. ”Con centinaia di migliaia di morti non si può fare nessuna festa, neanche per celebrare l’eroica resistenza che ha consentito di respingere l’invasione di Putin” dicono a Kiev, dove il nuovo comandante in capo delle forze armate ucraine, il generale Oleksandr Syrsky, assicura che rivedrà in profondità la strategia militare.
“Cambiare per vincere” dice Syrsky, 58 anni, considerato l’eroe della difesa della capitale dal blitz delle forze speciali russe che segnò l’avvio del tentativo di invasione. Il generale conosce direttamente la mentalità e il background strategico dei vertici militari post-sovietici perché, come tutti gli alti ufficiali della sua generazione, nel 1965 ha studiato all’accademia dell’allora Armata Rossa a Mosca.
Nonostante la pressione offensiva russa su Kupiansk e Avdiivka, determinata dall’impellenza di offrire a Putin un minimo successo propagandistico da ostentare nella campagna elettorale per le presidenziali di marzo, la prima svolta del neo-comandante ucraino sarà quella di colpire le retrovie e le linee di rifornimento dell’armata russa, molto più numerosa ma assai meno efficiente e combattiva delle forze di Kiev.
Cavalli di battaglia della “Syrsky-strategy” saranno i droni d’attacco, considerate come le armi del futuro che hanno già spostato l’equilibrio bellico tra uomo e tecnologia. I droni non sono armi miracolose, ma semplicemente immediate, efficaci e a bassissimo costo, rispetto ai milioni e milioni di dollari degli aerei e dei caccia supersonici e ai centomila dollari di ciascun proiettile d’artiglieria a guida Gps.
Lo hanno capito soprattutto i cinesi che stanno realizzando droni First Person View (Fpv), cioè con un sistema di pilotaggio remoto e visuale diretta, anche con inedite caratteristiche anfibie, come nel caso degli underwater drones capaci di rimanere invisibili, sommersi per lunghi periodi a trenta o quaranta metri di profondità, di penetrare nei porti e di risalire fiumi per poi emergere e colpire alle spalle il nemico. La lezione di Pechino é chiara: i conflitti futuri saranno sempre più decisi dai droni. E il Dragone intende essere in prima fila.
Sotto il cielo plumbeo del Cremlino, in attesa della scontata conferma delle elezioni farsa che gli assicureranno altri sei anni alla presidenza della Federazione Russa, Vladimir Putin ha evidenziato – secondo psicologi ed intelligence occidentale che hanno studiato l’intervista concessa all’ anchorman filo-trumpiano Tucker Carlson – un notevole comportamento e una espressività confusionari e contraddittori.
Il contesto sconclusionato fa pensare alla consapevolezza di un bilancio fallimentare. “I bilanci sono come i bikini: le parti più interessanti restano nascoste” , dice una vecchia battuta. La contraddizione più clamorosa riguarda l’offerta di pace in cambio del riconoscimento delle conquiste territoriali russe, rinunciando cioè all’invasione, fino al giorno prima conclamato obiettivo principale della sedicente operazione militare speciale. Gli osservatori più pessimisti ritengono tuttavia che Putin punti a fare esplodere il risentimento verso l’Occidente che accordi simili provocherebbero nell’opinione pubblica ucraina, nonché a guadagnare il tempo necessario per riorganizzarsi e puntare alla destabilizzazione successiva dei Paesi Baltici prevedibile in un lasso di tempo che va dai sei ai nove anni. “Se avete bisogno di tempo, il vostro scopo non può essere che falso” ripete un proverbio indiano.
Bilanci di guerra che grondano sangue anche in Medio Oriente. I ripetuti tentativi di Hamas di raggiungere una tregua e di rilasciare gli ostaggi in cambio della liberazione di prigionieri palestinesi fanno sospettare ad Israele che il gruppo terrorista tema particolarmente che l’esercito di Gerusalemme, in procinto di raggiungere Rafah, possa scoprire i residui e più grandi bunker dei quartier generali sotterranei dei fondamentalisti.
“Israele non fermerà le sue operazioni nella Striscia di Gaza neanche dopo che tutti gli ostaggi tenuti da Hamas saranno rilasciati” ha detto il ministro degli Esteri israeliano Yisrael Katz in un’intervista alla tedesca Bild. Quando gli é stato chiesto se il governo fosse pronto a concludere un accordo per porre fine ai combattimenti, in caso di un rilascio di tutti gli ostaggi, e ad abbandonare l’idea di sterminare completamente Hamas, Katz ha detto: “La mia risposta è no. Vogliamo liberare gli ostaggi, ma ciò sarà possibile solo in caso di pressione militare a Gaza, a Khan Yunis, Rafah e in tutti gli altri luoghi dove Hamas é presente. Non accetteremo di fermare la guerra finché Hamas non sarà sconfitto sia militarmente che politicamente”.
Parole nette, che riflettono lo stato d’animo dell’opinione pubblica prevalente e del governo israeliano, e che sono state seguite dall’ordine di avviare l’evacuazione della popolazione civile verso il nord della striscia o verso il valico con l’Egitto, ordine che il Premier Benjamin Netanyahu ha impartito alle forze d’invasione che hanno circondato Rafah, ultima roccaforte di Hamas a Gaza. La penultima, prima di quella di Teheran.