Valutazioni completamente oggettive sui vari conflitti, sulle loro cause e obiettivi sono difficili, poiché sono influenzate dai preconcetti e dalle ideologie di chi le formula. Due grandi tendenze dominano al riguardo: il realismo politico e il pacifismo. Entrambe si manifestano in forme radicali o più moderate. L’analisi del generale Carlo Jean
L’Infowar – cioè la competizione fra le propagande e le disinformazioni contrapposte – è una costante di tutti i conflitti. Nessun contendente ammette mai di combattere una guerra ingiusta. Tutti sostengono le loro buone ragioni. Spesso cercano anche di arruolare Dio dalla loro parte. La guerra giusta tende a trasformarsi in guerra santa. Per il Patriarca Kirill tale è l’aggressione russa all’Ucraina. Avrebbe infatti anche lo scopo di salvarla dal peccato: dal permissivismo verso i gay e i drogati e dal consumismo che l’allontanerebbe dalla “vera fede”, cioè dall’Ortodossia facente capo al Patriarcato di Mosca.
Valutazioni completamente oggettive sui vari conflitti, sulle loro cause e obiettivi sono difficili, poiché sono influenzate dai preconcetti e dalle ideologie di chi le formula. Lo si nota chiaramente nei conflitti in corso in Ucraina e in Medio Oriente.
Due grandi tendenze dominano al riguardo: il realismo politico e il pacifismo. Entrambe si manifestano in forme radicali o più moderate.
Per i realisti, la guerra è un fenomeno potenzialmente ineliminabile dalla storia delle società organizzate (cioè dal paleolitico superiore). La loro preparazione, necessaria per la sicurezza – bene supremo di ogni società – fa parte dell’“obbligazione politica”. Secondo padre Niebuhr – consigliere spirituale del grande politologo Hans Morgenthau – la guerra non può essere eliminata dalla storia, come non lo è il peccato originale. Il suo scoppio e la sua violenza possono però essere – e vanno – regolamentate dal diritto internazionale (Jus ad Bellum e Jus in Bello). Lo sono anche dalle varie dottrine della guerra giusta. Il ricorso reale alle armi può essere inoltre evitato – e la pace mantenuta – con la dissuasione realizzabile in due modi: o con l’equilibrio delle forze – di cui l’equilibrio del terrore e la minaccia di rappresaglie “di secondo colpo” della guerra fredda rappresentano la variante più stabile avvenuta nella storia – oppure con la superiorità degli Stati che, soddisfatti dello status quo, sono disponibili a ricorrere alle armi contro le potenze revisioniste che vorrebbero modificarlo con la forza. Le armi non sono, quindi, utili solo per combattere. Lo sono – a parer mio, soprattutto – per mantenere la pace. Chi non l’ha capito, dovrebbe dare una ripassatina alla storia o parlare di altro. È necessario che lo faccia in un periodo, come l’attuale, in cui la situazione strategica regionale e globale sta divenendo instabile e in cui l’Europa non può contare come in passato sulla “dissuasione estesa” americana.
La seconda tendenza è quella pacifista. Nelle sue forme più radicali essa sostiene che il ricorso alle armi sia sempre un crimine, che sia possibile eliminare ogni possibilità di guerra eliminando le armi (e il loro commercio), che non esistono guerre giuste e che la guerra possa essere cancellata dalla storia e sostituita dalla collaborazione fra i popoli, con negoziati promossi da potenti istituzioni internazionali capaci di imporre la pace, cioè il mantenimento dello status quo. La tendenza è molto popolare. La maledizione della guerra e delle sue brutture è vecchia come la guerra, soprattutto negli Stati deboli e in quelli che non vogliono sopportare i costi della sicurezza o di un conflitto. Viene normalmente utilizzata nella propaganda di guerra per diminuire la coesione dell’opinione pubblica nemica o di quella internazionale.
In sostanza, il pacifismo può essere – e viene – utilizzato come un’arma per prevalere sul nemico o per indurlo a disarmare, per batterlo più facilmente in caso di scoppio di un conflitto. Viene spesso applaudito dai politici per l’attrazione che esercita sugli elettori, poiché accantona nel breve termine il dilemma “burro o cannoni”, senza porsi il problema della sicurezza, che è sempre a medio-lungo periodo. Sulle esigenze della sicurezza è facile fare battute e sembrare spiritosi, come spesso avviene oggi in Italia, in cui viene praticamente ignorato il “ciclone” che ci investirebbe qualora Trump, eletto presidente, mantenesse le minacce espresse nei riguardi della Nato.
Tali due tendenze ideologiche contrapposte influiscono inevitabilmente sulle valutazioni date nei riguardi delle varie guerre, a parte le simpatie nutrite nei riguardi delle parti coinvolte. Basti, a quest’ultimo riguardo, pensare a come la propaganda del Cremlino e i suoi sostenitori si sono “arrampicati sugli specchi” per giustificare l’aggressione all’Ucraina (provocazione occidentale, minaccia dell’allargamento della Nato, oppressione della minoranza russofona, ecc.).
Tornando alle ideologie di base, a parer mio, il “realismo politico” corrisponde a quella che è la realtà del comportamento degli Stati e anche dell’Occidente, a cui conviene il mantenimento dello status quo esistente, seppur con una relativa politica di globalizzazione e di apertura verso il “Sud Globale”, che ne prevenga o, almeno, ne ritardi la completa indipendenza e sviluppo, per quanto ingiusta tale politica possa essere considerata da taluni. È probabile che la transizione non possa essere del tutto pacifica. La pax americana non regge più per l’erosione relativa della supremazia egemonica – militare ed economica – degli Usa e, soprattutto, per la crisi del loro impegno bipartisan di fungere da “gendarmi” dell’ordine mondiale liberal-democratico da essi costruito dopo la seconda guerra mondiale.
L’ordine internazionale attuale è divenuto instabile per la diminuzione della superiorità degli Usa e dalle loro sempre più accentuate tendenze al disimpegno e al ripiegamento isolazionistico. Ciò ha allentato – e non solo nel periodo della presidenza di Donald Trump – la solidità delle loro alleanze nell’Atlantico, ma anche nel Pacifico, peraltro indispensabili par la loro credibilità e potenza. Il ridimensionamento non si riferisce tanto alla potenza militare, tecnologica e finanziaria, quanto alle loro volontà d’intervenire per rispettare gli impegni presi, assumendone costi e rischi.
Ne consegue un periodo d’incertezza di cui l’Europa – in particolare l’Italia – non è ancora pienamente consapevole. Continua a basare la sua sicurezza sul possente deterrente nucleare e convenzionale americano, che però non dissuade più come in passato. Nessuno vuole affrontare seriamente il problema dell’autonomia strategica dell’Europa. Senza una capacità di dissuasione essa sarebbe “zoppa”, se non inesistente o, quanto meno, instabile. Questo imporrebbe di riprendere il progetto del 1957 (Taviani, Chaban-Delmas e Strauss) sulla “bomba nucleare” italo-franco-tedesca o di ricorrere a qualche altro “marchingegno” in condizioni di porre l’Ue in condizioni di resistere a ricatti nucleari (dotandosi di bombe radiologiche o di bombe basate sulle nuove tecnologie sviluppabili con l’intelligenza artificiale, ad esempio). Senza tali capacità di rappresaglia massiccia, non sarebbe possibile alcuna vera autonomia.
Meglio allora rassegnarsi ad accettare le pesanti condizioni che saranno imposte dagli Usa in caso di seconda presidenza Trump, oppure accettare il rapido declino che nella storia hanno sempre conosciuto gli Stati che non hanno saputo provvedere alla propria sicurezza, mascherando la propria impotenza con la “foglia di fico” di una virtuosa volontà di pace.