La locomotiva d’Europa s’è fermata, complici la crisi dell’industria e la perdita di fiducia nelle istituzioni. Ecco gli spettri che il nostro Paese deve scongiurare. L’intervento di Romana Liuzzo, presidente Fondazione Guido Carli
“Prenditi il diritto di sorprenderti”, scriveva Milan Kundera. Un consiglio che vale la pena seguire per analizzare la più inaspettata delle notizie dall’Europa: la crisi della Germania. Non può non suscitare stupore, infatti, la fotografia della “locomotiva Ue” arenata sui binari dopo lo shock della pandemia, incapace di imboccare la via della ripresa.
Vale la pena soffermarsi su ciò che sta accadendo a Berlino per trarne qualche insegnamento utile anche a Roma. Partiamo dal quadro economico. Già nel 2022 la crescita del Pil italiano aveva doppiato quella tedesca, ma nel 2023 è avvenuto l’impensabile: l’Italia ha mantenuto il segno più, seppure per pochi decimali (+0,7%), la Germania ha invece registrato un -0,3 per cento. Nel quadro generale di stagnazione dell’Eurozona, anche le previsioni della Commissione europea per il 2024 appena riviste al ribasso vedono l’economia tedesca ultima in classifica nella Ue, con un Pil stimato in aumento soltanto dello 0,3 per cento.
È il nuovo crollo della produzione industriale a novembre, certificato a inizio anno dall’Ufficio di statistica Destatis, a destare la maggiore preoccupazione, perché segnala una breccia nel muro portante dell’economia tedesca, la manifattura, indebolita da tanti fattori. Il primo è diretta conseguenza delle tensioni internazionali. La Germania è il Paese europeo che ha più sofferto delle conseguenze del conflitto russo-ucraino, semplicemente perché era quello che più beneficiava del gas russo a basso costo. Un vantaggio, quello del basso costo dell’energia, che è stato anche un volano storico dell’export. Qui entra in gioco il secondo elemento di debolezza, perché le esportazioni tedesche hanno sempre avuto un destinatario privilegiato: la Cina, che però è diventata l’altra “grande malata” dei nostri tempi e, soprattutto, il principale rivale degli Stati Uniti in una guerra commerciale senza esclusione di colpi.
C’è stato un terzo elemento a pesare: i costi della transizione green. Gli effetti sull’automotive del passaggio all’auto elettrica raccomandato da Bruxelles sono stati aggravati dall’aumento dei costi delle materie prime e dell’energia e si sono tradotti in licenziamenti e proteste. A dicembre il governo ha fatto retromarcia, dicendo addio al programma di incentivi. Non va meglio per l’agricoltura: decine di migliaia di trattori a inizio anno hanno marciato sulle autostrade per manifestare contro la cancellazione dei sussidi sul gasolio e il ritorno della tassa sulle macchine agricole, che non esisteva dal 1922, decisi per azionare di nuovo il freno sul debito pubblico. Un’ossessione – quella del rigore – che non si spegne neanche davanti alle ondate di scioperi che stanno attraversando il Paese: un vento del malessere che soffia dall’industria ai trasporti. “Die blockierte Republik”, ha titolato l’autorevole Die Zeit: “La Repubblica bloccata”.
Impossibile non ricordare le parole vibranti di Guido Carli quando, da ministro del Tesoro impegnato nel faticoso negoziato sul Trattato di Maastricht, davanti alla proposta degli olandesi, sostenuta dai tedeschi, di fissare parametri rigidi di finanza pubblica tuonò: «Sono consapevole che anche un tenue riferimento alle concezioni keynesiane viene giudicato improponibile in questa sede, ma non posso non ricordare che l’Europa ha conosciuto conseguenze gravi quando un grande Paese ha imposto la propria politica in vista dell’unico obiettivo della stabilità monetaria, incurante degli effetti sul livello di occupazione. Sul finire degli anni Trenta la politica seguita dal cancelliere Brüning suscitò approvazioni di economisti insigni, e anche del nostro Einaudi. Ma gli eventi che seguirono costrinsero alcuni di quegli economisti a recarsi fuori dalla Germania per proseguire le loro meditazioni».
L’allusione di Carli era all’austerità imposta da Brüning, passato alla storia come “il cancelliere della fame”. La priorità alla crescita e al lavoro era quella che mancava ai tedeschi di allora, e che anche ora pare traballare. Per Carli, invece, era un imperativo categorico. Lo ricorderemo nei prossimi eventi che la Fondazione intitolata allo statista promuove per tenerne viva l’eredità morale e culturale: la Lectio Magistralis dell’attrice e regista Claudia Gerini “Imperfetti e felici. Il coraggio della fragilità contro la dittatura dell’apparenza” in programma alla Luiss il 23 febbraio e il Premio Guido Carli che si terrà il 10 maggio, con una grande cerimonia per i suoi 15 anni di vita.
Dalla parabola tedesca, pericolosa anche per noi – la Germania è il nostro principale partner commerciale – l’Italia di oggi può in ogni caso imparare due lezioni. La prima è l’urgenza di dotarsi di una politica industriale seria e lungimirante, che sappia difendere l’eccellenza della nostra manifattura e affrontare a testa alta sia gli spettri di recessione sia le transizioni, scommettendo su ricerca, innovazione, formazione. La seconda è l’importanza di mantenere un solido rapporto di fiducia tra istituzioni e popolo. La debolezza di Olaf Scholz è, il cui indice di popolarità è sceso a 17 punti, non aiuta Berlino a navigare sulle rapide. Il consenso di cui gode Giorgia Meloni permette invece a Roma di osare. Parafrasando Kundera potremmo dire: “Prendiamoci il diritto di sorprenderli”.