Skip to main content

Che qualcuno ascolti il nuovo monito di Draghi. L’auspicio di Polillo

Alla base del suo ragionamento c’è la diagnosi su meriti e limiti del processo di globalizzazione. Ora è fondamentale che razionalità e politica non divergano

Working progress: Mario Draghi non demorde. Nel susseguirsi dei suoi interventi c’è un filo conduttore che si sviluppa a stretto contatto con una realtà in rapida evoluzione, in cui gli elementi di discontinuità sono ben più forti del tradizionale business as usual. Si riveda il discorso tenuto, lo scorso giugno, al Massachusetts Institute of Technology. Quindi la successiva prolusione di Cambridge il mese dopo. E ora si analizzi questo suo ultimo intervento alla National Association for Business Economics, dove gli è stato conferito il premio Volcker. Si potrà così avere contezza del lineare sviluppo di un ragionamento, fortemente radicato nell’analisi del reale.

La cosa non deve sorprendere. Nelle sue grandi battaglie, il suo punto fermo è stato sempre questo ancoraggio. È stato quel metodo che gli ha permesso di vincere le resistenze del board, quand’era presidente della Banca centrale europea. Fino al famoso “whatever it takes” che portò allo sviluppo del quantitative easing europeo. Una gestione della politica monetaria già sperimentata da altre banche centrali, come la Federal Reserve o la Banca del Giappone, ma che l’ortodossia di alcuni importanti stakeholder vedeva come il fumo negli occhi.

Allora fu la cancelliera tedesca Angela Merkel a comprendere, prima dei suoi stessi banchieri, che quella scelta era inevitabile. Dando all’Italiano, che si era insediato al vertice di Francoforte, il necessario via libera. Una liaison che Ursula von del Leyen, presidente della Commissione europea, che di Merkel era stata grande supporter politico, ha rinnovato, commissionandogli una riflessione profonda sui destini dell’Europa. Perché di questo tratterà la sua relazione sui problemi della competitività: oggi profondamente intrecciati con tutto il resto. Dagli assetti istituzionali, alla politica economica e finanziaria, fino al cuore della fiscal policy.

I tre interventi ricordati sono altrettanti capitoli di questo impegno più ampio. Le cui conclusioni sono, tuttavia, ancora da scrivere. Dipenderà da quanto succederà all’indomani di quegli avvenimenti (le elezioni europee, ma non solo) che sono destinati a fornire ulteriore materiale di riflessione. Nel frattempo, tuttavia, è necessario tenere il passo. Sforzarsi di penetrare ciò che già è avvenuto. Se in Europa si fosse seguita questa strada, invece di inseguire la logica delle piccole convenienze elettoralistiche, le nuove norme del Patto di stabilità, anche dopo il trilogo (l’accordo tra Parlamento europeo, Consiglio europeo e Commissione europea), sarebbero state scritte con un inchiostro diverso.

Alla base del ragionamento di Draghi è ancora l’esatta diagnosi sui meriti e sui limiti del processo di globalizzazione. Che ha dato tanto, contribuendo a circoscrivere l’area dell’inedia e del sottosviluppo, che aveva caratterizzato il “secolo breve”. Ma che anche ha alimentato l’insorgere di nuove grandi contraddizioni, proprio nel cuore di quelle che erano state una volta le grandi metropoli dello sviluppo capitalista. Quasi a inverare, seppure in termini inediti, le vecchie tesi maoiste dell’accerchiamento: le campagne che espugnavano i santuari dell’imperialismo, rovesciando le antiche egemonie.

Un processo, comunque, lungo e complicato, che l’Occidente, nel suo complesso, si è dimostrato incapace di gestire. Consentendo, soprattutto alla Cina, di violare regole stringenti, destinate altrove a operare come freno nei confronti della restante parte della Comunità internazionale. Colpa soprattutto di quell’eccesso di mercantilismo che ha caratterizzato le politiche economiche di molti Paesi. Quelli dell’Asia orientale “che accumulano grandi riserve valutarie”. Della Cina stessa che si liberava “dalla dipendenza dall’Occidente per i beni capitali e la tecnologia”. Dell’Europa che perseguiva “una politica di accumulo deliberato di avanzi delle partite correnti”, della bilancia dei pagamenti. Trascurando tutto il resto.

Questo nucleo centrale è stata la zavorra delle politiche economiche perseguite. Specie negli ultimi anni ha comportato quell’austerity che ha deflazionato i salari, compresso la domanda interna, riflettendosi negativamente sulla dinamica degli investimenti. A loro volta non compensati dalla caduta dei tassi d’interesse, quale riflesso dell’eccesso di risparmio, dovuto al ristagno della domanda. Il risultato di tutto ciò è stato la progressiva frenata del tasso di crescita complessivo, a livello mondiale. Che ha contribuito non poco a far lievitare il rapporto debito/prodotto interno lordo.

Due elementi traumatici hanno poi inciso, seppur nel passato più recente, su quella tendenza relativa. Il Covid, da un lato, l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, dall’altro. Fattori che hanno profondamente alterato il teatro geopolitico sui cui era nato e si era sviluppato il processo della globalizzazione. Nel primo caso, “la pandemia ha sottolineato i rischi di catene di approvvigionamento globali estese per beni essenziali come farmaci e semiconduttori.” Mentre la guerra di aggressione all’Ucraina ha “messo in luce i pericoli di un’eccessiva dipendenza da partner commerciali grandi e inaffidabili che minacciano i nostri valori.”

Ne è derivata, in definitiva, una profonda alterazione “dell’agenda politica”. Con “l’emergere di blocchi di nazioni che sono in gran parte definiti dai loro valori comuni” che “sta già portando a cambiamenti significativi nei modelli di commercio e investimento globali.” In una fase in cui, le sfide legate al riscaldamento globale e agli impegni del green deal, impongono scelte non convenzionali come l’Inflation Reduction Act degli Stati Uniti e, in prospettiva, il Carbon Border Adjustment Mechanism dell’Unione europea.

In questo nuovo scenario, le politiche dell’offerta sono destinate ad avere una loro centralità. Dovranno garantire una riconversione produttiva di proporzioni inusitate. Operazione tutt’altro che semplice, che richiederà un utilizzo diverso dei tradizionali strumenti di politica economica. Con una finanza pubblica più attenta ai fenomeni del cambiamento. In grado di intervenire con la necessaria tempestività per governare l’intero processo, sollevando così la stessa politica monetaria da compiti impropri che le mutate condizioni della situazione economica e finanziaria renderebbero ben più difficile dal perseguire.

Discorso di metodo, come si vede, destinato tuttavia a racchiudere scelte immediate che Draghi non ha timore da enunciare. “In primo luogo”, osserva, “deve esserci un percorso fiscale chiaro e credibile che si concentri sugli investimenti e che, nel nostro caso, preservi i valori sociali europei. Ciò darebbe maggiore fiducia alle banche centrali che la spesa pubblica corrente, aumentando la capacità di offerta, porterà a una minore inflazione domani”.

“In Europa”, poi, “dove le politiche fiscali sono decentralizzate, possiamo anche fare un passo avanti finanziando più investimenti collettivamente a livello dell’Unione. L’emissione di debito comune per finanziare gli investimenti amplierebbe lo spazio fiscale collettivo a nostra disposizione, alleggerendo alcune pressioni sui bilanci nazionali. Allo stesso tempo, dato che la spesa dell’Unione europea è più programmatica – spesso si estende su un orizzonte di più anni – la realizzazione di investimenti a questo livello garantirebbe un impegno più forte affinché la politica fiscale sia in ultima analisi non inflazionistica”.

Logica stringente. Se non fosse che la razionalità e la politica, come osservava Angelo Panebianco dalle pagine del Corriere della Sera, “tendono spesso a divergere.” Creando quel corto circuito che può provocare grandi e piccole tragedie.



×

Iscriviti alla newsletter