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Attenzione al corto circuito

Lo Stato non dovrebbe entrare nelle attività di mercato, bensì concentrarsi nella fornitura dei beni pubblici, che il mercato non può fornire perché sono incondizionatamente fruibili. L’elenco dei beni pubblici è vasto e continua ad allungarsi: l’ambiente, un tempo considerato stato di natura, sta diventando un bene pubblico da produrre e mantenere. Uno Stato che si limitasse a fornire beni pubblici, in modo completo ed efficiente, avrebbe comunque da svolgere funzioni economiche numerose e rilevanti. Ma i mercati efficienti in senso classico, cioè concorrenziali, sono sempre meno. Economie di scala e innovazione rendono necessarie notevoli anticipazioni di capitale e sollevano barriere all’entrata e all’uscita. La necessità di recuperare i capitali anticipati comporta prezzi sempre più lontani dai costi marginali; le barriere li rendono possibili. Ciascuna impresa decide a proprio rischio in quanto tempo e con quale margine unitario tentare il ricupero, non avendo certezza di ottenere un profitto. Le dimensioni delle imprese debbono crescere, quindi se ne riduce la numerosità; la forma di mercato si sposta dalla concorrenza, in cui il prezzo di equilibrio è determinato, verso l’oligopolio, in cui esso può variare in un campo non piccolo.
 
Nelle condizioni descritte, che sono tipiche delle industrie moderne, le decisioni imprenditoriali sono assunte in condizioni di incertezza. Un motivo ulteriore perché lo Stato ne resti fuori. È impossibile non commettere errori: l’importante è che siano pochi, piccoli e che vengano corretti in fretta. Nulla permette di supporre che burocrati e politici sbaglino di meno di manager e imprenditori. Ma i secondi hanno interesse a correggere subito i propri errori e se non lo fanno esauriscono rapidamente la propria capacità di nuocere. Al contrario lo Stato può perseverare a lungo in iniziative sbagliate, a spese dei contribuenti e magari appoggiando per legge le attività intraprese, anche perché la classe politica ha obiettive ragioni per non riconoscere pubblicamente i propri errori.
Nelle condizioni indicate viene tuttavia ostacolata la funzione della “mano invisibile” che obbliga gli operatori privati a giungere a soluzioni di ottimo collettivo, proprio perché si è al di fuori del mercato concorrenziale. In mercati oligopolistici sono sostenibili soluzioni che non massimizzano il benessere generale (secondo il Nobel Joseph Stiglitz la mano invisibile non si vede perché non c’è). E poiché anche il mercato per il controllo delle imprese è imperfetto, gli assetti di mercato che concretamente si realizzano non solo non massimizzano il benessere collettivo, ma neppure l’interesse degli azionisti.
 
Le asimmetrie informative consentono ai manager di prendere decisioni nel proprio interesse: una vasta letteratura documenta, ad esempio, che la maggior parte dei take-over risulta dannosa per gli azionisti dell’impresa acquirente, ma rafforza i suoi manager. Analoghe considerazioni valgono per l’azione dei gruppi di controllo rispetto agli interessi della totalità dei soci, e di questi ultimi rispetto agli altri stakeholder. Nei mercati diversi dalla concorrenza, dove l’azione dell’impresa si svolge nell’incertezza e le sue decisioni sono caratterizzate dalla discrezionalità, gli interessi dei manager e dei gruppi di controllo possono orientare le scelte. Per cui non è affatto irrazionale che gli altri stakeholder si chiedano se tali interessi coincidono o meno con i propri. Valga un esempio tra i tanti che si potrebbero fare. Le attività di impresa di livello superiore – direzione strategica, ricerca, finanza – generano esternalità positive, in termini di investimenti locali, formazione di capitale umano, livelli retributivi. Esse sono alimentate dal complesso delle operazioni aziendali, che nei grandi gruppi si dispiegano su molti territori: è logico che ciascuno di questi aspiri ad attrarre tali attività e che quindi preferisca che le imprese operanti in loco siano guidate da persone che hanno anch’esse nel territorio i propri interessi individuali. Tuttavia i mezzi adottati per conseguire il desiderato allineamento degli interessi non sempre sono privi di controindicazioni.
 
Una politica industriale virtuosa può selezionare le funzioni produttive svolte sul territorio realizzando le condizioni esterne (gestibili dalla mano pubblica) più favorevoli alle funzioni di ordine superiore, e così inducendo le imprese, al di sopra delle convenienze di singoli dirigenti, a privilegiare determinate localizzazioni per determinate funzioni. Una politica siffatta può dare però i suoi frutti soltanto nel lungo termine. Accade invece che talvolta governi ed altre autorità territoriali intervengono nell’immediato per condizionare o costringere le scelte localizzative delle funzioni di impresa. Costringendo le imprese a scelte che esse non considerano convenienti se ne peggiora l’efficienza; si rende meno appetibile il territorio in questione; si deprime il valore delle imprese che vi operano, riducendone le potenzialità; si inducono all’esodo gli stessi fattori pregiati che si vorrebbero invece trattenere, a cominciare dal capitale umano e dagli investimenti strategici. Si tratta quindi di strumenti che non andrebbero impiegati.
 
Diversa natura hanno gli strumenti che mirano a correggere fallimenti del mercato per il controllo delle imprese. Un mercato imperfetto, nel quale può accadere che operazioni economicamente valide non siano avviabili, ad esempio per mancanza di operatori idonei: in tal caso iniziative miranti a correggere inadeguatezze strutturali possono giovare a rafforzare il mercato, anziché a surrogarlo. Interventi siffatti, tuttavia, sono esposti al rischio di avviare un corto circuito tra il livello politico, che deve mirare all’interesse generale con l’obiettivo del consenso, e quello economico, che deve soltanto creare ricchezza in una sfera sotto-ordinata rispetto a quella politica. È pertanto necessaria una attenta separazione delle due sfere.


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