Skip to main content

Cosa imparare dalla prima metà del percorso del Pnrr. L’analisi di Zecchini

Dal primo triennio di attuazione del Piano, emerge una lezione principale. Ovvero che il Paese ha molto da programmare e riformare se vuole effettivamente avere un’economia dinamica in grado di rimanere tra quelle avanzate. L’analisi di Salvatore Zecchini, economista dell’Ocse

L’Italia sembra essere uscita bene dalla valutazione dell’esperienza dei primi tre anni di attuazione del Pnrr e anche dal confronto con gli altri paesi beneficiari del programma comunitario Ngeu. È riuscita nell’intento di ricevere un ammontare di risorse grosso modo in linea con la programmazione iniziale e a tal fine ha rispettato con pochi slittamenti le scadenze, i traguardi intermedi e quelli finali prefissati. Il beneficio per la finanza pubblica è stato rapido e consistente in un periodo di rilevanti disavanzi di bilancio ed onerosi aggravi del debito pubblico.

Nel complesso, i risultati quantitativi si condensano in pochi numeri: è stata incassata oltre la metà dell’assegnato (52,7% pari a 102,5 miliardi su 194,4 miliardi), e sono state tirate regolarmente le quattro tranche previste, a cui si aggiunta a fine anno 2023 la quinta, che è in corso di verifica dalla Commissione europea per procedere all’erogazione. Per avere un’idea della consistenza del beneficio introitato si tratta di risorse corrispondenti al 5,7% del Pil del 2022. In termini di adempimento delle condizioni che si era impegnato a rispettare, il Paese ha raggiunto il maggior numero di traguardi tra i paesi beneficiari, né poteva essere altrimenti considerato che è il maggior beneficiario del programma e quindi principale punto di riferimento per giudicare la validità dell’intervento comunitario.

Non sminuisce il risultato neanche l’aver richiesto l’anno scorso una riformulazione di alcuni interventi perché le condizioni di contesto e le esigenze sono cambiate rispetto all’inizio del decennio ed alcune opere comportano tempi più lunghi del previsto. Questa revisione è comune a molti dei paesi beneficiari e non implica un giudizio negativo sullo sforzo compiuto finora. Riconosciuta l’importanza dei risultati raggiunti, l’attenzione va focalizzata sugli aspetti critici emersi nell’esperienza acquisita nello scorso triennio per affrontare con maggior prontezza, efficienza ed efficacia la fase del completamento dei progetti e delle riforme entro la scadenza finale del 2026.

Si è usciti dalla prima fase in cui bisognava definire i dettagli dei progetti, nonché delle riforme, organizzare le necessarie risorse materiali ed umane, completare gli iter autorizzativi, stabilire la struttura di governance per la gestione e il controllo del programma, bandire le gare, assegnare i lavori e dare inizio alle realizzazioni. Si è entrati, pertanto, nel pieno dell’attuazione con scadenze stringenti e con il vantaggio di conoscere le manchevolezze e le cause dei ritardi emersi nella prima fase, sapendo di doverle superare e di evitarne di nuove. Soprattutto, è essenziale concentrarsi tanto sull’osservanza formale degli impegni presi entro la scadenza fissata, quanto nell’assicurare che l’intervento, riforma oppure opera che sia, raggiunga il risultato voluto.

La prima non è affatto garanzia automatica della seconda, in quanto le riforme possono non aggredire a sufficienza il problema da risolvere e le opere realizzate possono non allentare abbastanza i freni esistenti allo sviluppo del Paese. Quest’ultimo è il risultato preminente a cui bisogna mirare. Dall’esperienza del primo triennio del Pnrr si possono trarre diversi insegnamenti sui problemi incontrati e sulle soluzioni da approntare. Il primo aspetto tocca le carenze di programmazione, progettualità e valutazione tecnica ed economica degli interventi necessari per lo sviluppo socioeconomico del Paese.

Le carenze sono più evidenti nell’amministrazione periferica (Regioni e Comuni), ma interessano anche alcune strutture centrali. Un piano come il PNRR non si improvvisa, specialmente in pochi mesi come avvenuto col Pnrr, tirando dal cassetto iniziative a lungo dormienti, ma occorre basarsi su una struttura di progettazione ed analisi ben rodaggiata ed abituata a riflettere sul futuro e non a replicare visioni del passato. La relativamente alta età media dei funzionari e l’ambiente legalistico in cui in generale i quadri dirigenti della PA sono abituati ad operare non conducono a una buona programmazione ed esecuzione di piani innovativi, diretti a spezzare la lunga catena di stagnazione e bassa produttività che ha frenato lo sviluppo.

Il problema è aggravato dal deficit di competenze, professionalità e maestranze che sono necessarie per progettare e realizzare gli interventi programmati. Questo vincolo si riscontra a tutti i livelli di competenza dal più alto a quello esecutivo. Il riflesso è evidente nella pochezza delle analisi ex-ante sul merito economico e sociale delle opere selezionate, col risultato che non vi sono attendibili indicazioni sul tasso di rendimento sociale degli investimenti progettati, né sugli effetti attesi per lo sviluppo. I dati riportati al riguardo sono in generale aspettative fondate su deboli basi d’indagine, come nel caso dell’effetto moltiplicatore del reddito derivante dagli investimenti pubblici.

Nella fase di attuazione è venuto altresì alla luce lo squilibrio tra l’ambizione del programma e le strozzature nella capacità di disporre delle risorse materiali oltre che umane. In un arco limitato di tempo si sono affacciate sul mercato grandi richieste di input per la produzione, che non possono essere soddisfatte nei tempi voluti. Il problema non è imputabile soltanto agli sconvolgimenti della pandemia e della guerra in Ucraina, perché deriva in parte dal fatto che il Paese non è attrezzato a sufficienza per attingere alle fonti delle risorse richieste nei tempi dovuti.

Le cause stanno nelle insufficienze delle vie di comunicazione, della logistica avanzata, dell’operatività di infrastrutture alternative in caso di restrizioni su alcuni canali e nelle rigidità dei mercati interni dovute a segmentazioni territoriali e alla congerie di vincoli pubblici.
In un simile contesto si dovrebbe apprezzare l’importanza del metodo applicato dalla Commissione, consistente nel condizionare il finanziamento al raggiungimento di precisi indicatori di performance (milestones and targets) scaglionati nel tempo, da cui viene fatta dipendere l’erogazione dei fondi.

Per l’Ue questo approccio è un passo in avanti rispetto a quello consueto ma non unico, che consiste nel rimborso dei costi sostenuti per gli investimenti realizzati, ad esempio per i Fondi di Coesione. È un metodo nuovo per l’UE, da anni applicato da altre istituzioni internazionali, quali il Fmi, di cui il Paese ha provato l’effetto di disciplina fin dal lontano 1976 quando ha dovuto chiedergli il sostegno finanziario. La stessa Commissione riconosce l’importanza di questo passaggio nella sua relazione sulla valutazione di metà percorso, e la sottolinea anche il corposo studio commissionato a un gruppo di rinomati centri di analisi.

Aspetto ancor più innovativo è il collegamento che viene stabilito tra interventi di struttura o infrastruttura e riforme di sistema. Ad esempio, si investe nelle infrastrutture e nelle risorse umane impegnate nel sistema giudiziario e al tempo stesso si chiedono riforme delle procedure nel senso dello snellimento, riduzione dei tempi e minore incertezza sulle norme e sull’esito dei giudizi. Quanto realizzato in Italia ha prodotto già un accorciamento dei tempi della giustizia, ma non abbastanza da alleggerire significativamente gli oneri per il sistema socioeconomico, né per allinearsi alle migliori performance nell’Ue. Rimane, inoltre, carente il coordinamento tra le azioni previste nei diversi settori economici. Ne è un esempio la debolezza delle misure dirette a potenziare la concorrenza, che non ha permesso di mitigare le tensioni sul fronte dei prezzi.

Un’implicazione molto positiva del metodo della performance è, invece, il concentrare l’impegno degli esecutori sul risultato da ottenere con l’intervento. Ne deriva una maggiore efficacia della spesa pubblica e uno sforzo di efficienza nel gestirla entro tempi prefissati. Al tempo stesso è emerso un lato negativo nella complessità delle procedure da seguire per gestire ogni intervento, verificarne la rispondenza all’indicatore di performance e giustificare la spesa. Sebbene queste procedure siano in linea con quelle applicate normalmente dalla Commissione per ogni spesa a fini di controllo e audit, accrescono i costi di natura amministrativa e allungano i tempi delle erogazioni. Gli Stati membri e la Commissione hanno riconosciuto il problema e si ripromettono di apportare cambiamenti per ottenere un migliore equilibrio tra complessità, trasparenza e buon impiego dei fondi.

Il problema deriva in parte dalla difformità tra procedure comunitarie e quelle nazionali. I funzionari italiani, addestrati a seguire le procedure che governano la gestione pubblica del paese, hanno incontrato difficoltà a uniformarsi alle regole comunitarie, provocando ritardi nella gestione degli interventi, in particolare nel gestire bandi, gare e aggiudicazioni di opere. Questo rappresenta solo uno degli aspetti del più ampio problema della semplificazione amministrativa. Il governo ha emanato diversi provvedimenti per snellire le procedure, ma la presenza di ritardi ed errori di applicazione nella Pa conferma la necessità di fare di più in questa direzione. Ad esempio, al fine della semplificazione andava sviluppato un collegamento tra digitalizzazione e standardizzazione degli adempimenti mediante schemi e software predefiniti.

Diverse criticità rilevate dall’esperienza acquisita negli ultimi anni discendono dalla struttura di governance che è frazionata tra diverse autorità sia al centro, che a livello territoriale, tra Regioni e Comuni. Il frazionamento non ha favorito la speditezza nel progettare e realizzare quanto programmato entro le rigide scadenze fissate. Come sottolineano le analisi della Commissione, una struttura di governance accentrata, possibilmente al livello del capo del governo, tende a essere associata a una migliore efficienza nella progettazione ed esecuzione delle misure. Nel caso italiano il coordinamento tra diverse autorità si è rivelato arduo al punto da indurre il Governo ad accentrare parte delle responsabilità, pur mantenendo un inteso dialogo con i diversi soggetti coinvolti.

Due delle ricadute negative del sistema frazionato di governance si riscontrano nei ritardi di esecuzione e nelle disfunzioni nel monitoraggio e nell’informare la struttura al centro sull’avanzamento nelle realizzazioni, sugli ostacoli incontrati e sui tempi di spesa. I dati forniti nell’ultima relazione del Governo, per ammissione dello stesso, non riportano tutto quanto effettivamente realizzato perché i soggetti attuatori sono in ritardo nella registrazione delle spese effettuate. In realtà il quadro dei dati sulle spese effettive non è incoraggiante nella prospettiva di ottenere con il PNRR uno stimolo efficace agli investimenti e alla crescita. Su 102,5 miliardi di fondi incassati risultano spesi solo circa 43 miliardi di cui appena 19 miliardi circa per investimenti pubblici, mentre il resto è stato usato per il “superbonus”.

La percentuale di spesa (registrata) dell’12,5% degli investimenti programmati è molto al di sotto delle stime iniziali per questo periodo e fa dubitare che si possano conseguire quei risultati d’impulso moltiplicativo del reddito nazionale che sono attesi per questo decennio. A livello europeo gli studi svolti per la Commissione parlano di un incremento della crescita dovuto al PNRR dello 0,4% nel 2022 e di una diminuzione della disoccupazione dello 0,2%. Il governo italiano si guarda dal fornire qualche stima per il Paese, mentre alcuni centri di ricerca si sono cimentati nella valutazione. Dalle loro simulazioni di impatto sembra che lo scostamento positivo della crescita dalla linea di tendenza sia stato finora molto modesto, mentre l’effetto dovrebbe amplificarsi nei prossimi due anni e proseguire.

Ma i ritardi di esecuzione incidono sul profilo temporale degli effetti nel senso di diluirli. Considerata l’esistenza dei ritardi, si dovrebbe procedere a un’analisi approfondita delle cause ed emanare provvedimenti anche a livello costituzionale per superare queste disfunzioni. Vi è da chiedersi perché il governo non ha responsabilizzato maggiormente i soggetti attuatori a rispettare le scadenze ed informare, o meglio rendicontare tempestivamente le erogazioni. In ogni caso, una soluzione va data con rapidità, perché restano da spendere ufficialmente 151,4 miliardi in meno di tre anni, un compito immane alla luce degli importi molti inferiori che la Pa è riuscita a erogare negli anni passati.
Nella corsa a spendere è facile perdere l’attenzione sulla qualità della spesa che assieme alla sua dimensione ha grande rilevanza per il successo del Piano.

In assenza di valutazioni specifiche si deve fare ricorso alle cifre pubblicate sugli interventi in realizzazione, su quelli rimossi e su quelli aggiunti. Mentre la parte aggiuntiva del RepowerEu (11,2 miliardi) non solleva dubbi perché enfatizza la transizione verso un sistema energetico sostenibile e meno inquinante, la lista dei progetti rimossi o ridotti sollecita qualche giustificazione. Tra questi si notano la rimozione del progetto per il collegamento Roma-Pescara e per le opere per l’Alta velocità Verona-Brennero, e la riduzione delle risorse per l’Università e la ricerca, la cultura, l’istruzione, la trasformazione digitale, le politiche di coesione e il ministero dell’Interno.

Inoltre, i ritardi maggiori si riscontrano negli investimenti infrastrutturali. Degno di nota anche l’aver già speso il 94,5% dei contributi “a soggettivi diversi da unità produttive”, ma soltanto il 32,8% per incentivi alle imprese. Singolare ordine di priorità economica! Le motivazioni di queste modifiche nella distribuzione delle risorse non sono del tutto chiare nella recente Relazione governativa. Alla fine, dal primo triennio di attuazione del Piano emerge una lezione principale, ovvero che il Paese ha molto da programmare e riformare se vuole effettivamente avere un’economia dinamica in grado di rimanere tra quelle avanzate.



×

Iscriviti alla newsletter