Quella della Sardegna è stata certamente un’occasione perduta per il centrodestra e specialmente per i cittadini dell’isola. La faccenda tuttavia ha dimostrato che il centrodestra è forte e coeso, e il centrosinistra è smarrito e frammentato. D’altronde, inventarsi un’alternativa in politica non è roba da spot, da rivalsa o rievocazioni passatiste, ma da statisti e grandi ideali. E, nonostante il campo sia così largo, nel centrosinistra non si vede un sole che nasca all’orizzonte. Il commento di Benedetto Ippolito
Finalmente lo spoglio delle regionali in Sardegna è terminato. Dopo un travaglio infinito il risultato si è consolidato verso le 2 di stanotte col 45,4% dei voti ad Alessandra Todde, candidata del “campo largo” del centrosinistra, la quale si è guadagnata così la presidenza della Regione; mentre Paolo Truzzu del centrodestra si è arrestato al “trascurabile” 45%.
Non ci sono molti commenti da fare: si tratta, con tutta evidenza, della democrazia. E quando si vota, c’è chi vince e c’è chi perde, seppure di misura. Punto. Ciò nondimeno qualche parola di esegesi è resa necessaria dalla pessima abitudine di chi s’impone elettoralmente a cimentarsi nel disprezzare lo sconfitto: quest’ultima attitudine, d’altronde, è poco attrattiva e non rispettosa dello stile che si deve tenere. In Toscana c’è un detto: “Chi vince non cogliona!”. Con tale affermazione caustica popolana si vuole intendere una cosa molto saggia. Vincere dà diritto a governare, ma non certo ad irridere il perdente. In modo più raffinato si direbbe che la tracotanza vittoriosa è una variante paesana del “vile oltraggio”, che sa molto di perfidia e poco di simpatica responsabilità collaborativa. Così è!
Ma veniamo a noi. Tra le grida altisonanti di giubilo di Elly Schlein e di Giuseppe Conte, volati per l’occasione immediatamente in Sardegna per tirare un sospiro di sollievo, si percepisce sullo sfondo una profonda amarezza e una totale mancanza di realismo, specialmente nei riguardi della scarsissima prospettiva politica che il beneamato “campo largo” assume per loro sul piano generale. In fondo dire che tira “aria nuova” si può comprendere solo come strepito di disperazione. Sì, perché questa nuova versione del vecchio centrosinistra, con annessi e connessi centristi, assomiglia alla perdurante e reiterata armata Brancaleone, nella quale si è tutti dentro e si sta tutti insieme purché si scappi dall’incubo di restare ai margini dell’agognato potere perduto.
In verità, il centrodestra, grazie a Dio, non è un “campo largo” che assume ogni differenza senza la minima sensibilità sulla realizzabilità della propria politica, ma è un “campo omogeneo, solido e compatto”, nel quale diverse sensibilità concorrono congiuntamente a portare avanti le medesime esigenze e gli stessi valori, propri di una solida maggioranza di cittadini-elettori.
Dall’ottobre del 2022 in Italia vi è in effetti una maggioranza politica di centrodestra che si è fatta cultura e paradigma, unita attorno ad un leader donna giovane e ammirato a livello internazionale, il quale guida con fermezza la nostra nazione. Tutto sta migliorando quantomeno in un punto decisivo, l’ordine dello Stato, dopo decenni di politiche interessate esclusivamente ad alchimie profetiche e ad ambizioni velleitarie, a scapito del bene comune e dell’economia pubblica. Di Meloni si può condividere o meno il progetto, le idee e la politica, ma lei è questo. È ovviamente questo. Lo sanno tutti. Perciò ragione vorrebbe che si pensasse nella parte avversa a proporre un’alternativa popolare vera, consistente, supportata da un’analoga condivisione d’intenti, opposti ai precedenti ma simili nel metodo, piuttosto che crogiolarsi in un successo di misura, in una vittoria di Pirro, ottenuto con la logica del “tutti insieme disperatamente”, pavoneggiando addirittura l’irrealistica logica del “siamo tutti antifascisti” o del “meglio la matita del manganello”.
Devo dire che, guardando le cose dal di fuori, tutta questa retorica progressista appare poco ambiziosa, e molto ricca di malevolenza e puerilità. Il fatto stesso che l’astuto Matteo Renzi abbia subito rilanciato il suo vantato intento machiavellico, tendendo la mano a questa informe utopia del “campo largo” non fa altro che confermare l’impietosa analisi.
Dopodiché, l’errore nella selezione del candidato nel centrodestra vi è stato in modo sicuro. Se la sconfitta arriva, com’è accaduto qui, per una manciata di voti e, tra l’altro, senza che vi sia stata l’unanimità nel sostenere il relativo candidato presidente, qualche problema senz’altro si è verificato. È indubbio che il problema politico c’è, eccome. Nonostante tutto, il progetto nazionale del centrodestra però è altra cosa da una brutta vicenda, deve continuare a restare saldo e proseguirà di certo come sta facendo: e sarà così per due ragioni fondamentali. La prima è che l’identità della maggioranza è resa tale da oltre vent’anni di storia. E la seconda è che Meloni è una guida non sopportata, ma accettata e voluta da Forza Italia, dalla Lega e dal popolo italiano.
Nessuno è infallibile, specialmente in politica. Non si vince e si perde se si vince e si perde numericamente, ma se si fa trionfare un programma, se lo si porta avanti facendolo privilegiare all’altro e se, a condizioni date, si regge alle sconfitte, capitalizzandone il tesoro di forza che ha nel futuro.
Quella della Sardegna è stata certamente un’occasione perduta per il centrodestra e specialmente per i cittadini dell’isola. La faccenda tuttavia ha dimostrato ancora di più e ancora una volta che il centrodestra è forte e coeso, e il centrosinistra è smarrito e frammentato. D’altronde, inventarsi un’alternativa in politica non è roba da spot, da rivalsa o rievocazioni passatiste, ma da statisti e grandi ideali. E, nonostante il campo sia così largo, nel centrosinistra non si vede un sole che nasca all’orizzonte.