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I numeri dell’economia italiana letti (senza pregiudizi) da Polillo

Crescita allo 0,9 per cento. Un dato che non va sottovalutato considerando le incertezze che dominano il quadro internazionale. Nonostante tutto, ci sono buone notizie e una qualche speranza per l’immediato futuro. L’analisi di Gianfranco Polillo

Grande imbarazzo delle forze di opposizione, restie nel valutare, con il necessario distacco, i dati Istat che fotografano la situazione italiana. E che, invece, mobilitano i tecnici di area nel tentativo di dimostrare l’indimostrabile. Tipico il caso di Massimiliano Di Pace, dalle colonne dell’Huffington Post, il quale, ignorando la grammatica che sovrintende alle regole del debito, accusa il governo di Giorgia Meloni di costare “quanto una pandemia”. Che cos’è che non va giù ai tanti polemisti della domenica? Quasi tutto: a partire da un tasso di crescita che lo scorso anno si è dimostrato, seppure di pochissimo, migliore delle previsioni.

Quel più 0,9 per cento, non va sottovalutato, considerando le incertezze che dominano il quadro internazionale. Se si esclude la Spagna, che ha realizzato un salto del 2,5 per cento, esso è migliore dei risultati francesi (0,7 per cento), per non parlare della grande Germania, che subisce una, brusca battuta d’arresto, pari a meno 0,3 per cento. Altro dato positivo: la tenuta dei conti con l’estero, che hanno contribuito per un terzo alla crescita del prodotto. Non era scontato, considerando quanto sta avvenendo sui mercati internazionali. Con i singoli Paesi alle prese con il puzzle della riconversione degli scambi commerciali.

Il grosso della crescita si deve tuttavia alla domanda interna: consumi e investimenti che aumentano nella stessa misura (1 per cento). Poteva anche andar meglio se non vi fosse stata una seppur parziale liquidazione delle scorte, accumulate in passato, che hanno inciso negativamente per l’1,3 per cento. Poco male: il relativo vuoto dovrà essere colmato a partire dai prossimi mesi. L’elevata inflazione (più 6,2 per cento) si è dimostrata, ancora una volta, essere un tonico per l’economia. Quando i prezzi salgono, conviene anticipare le spese. La crescita della domanda interna, si deve, almeno in parte a questo fenomeno.

Della crescita relativa, anche se fin troppo contenuta, ne hanno beneficiato un po’ tutti. Le imprese innanzitutto che hanno visto aumentare i propri rendimenti. Come mostrano gli indici di borsa. “Milano regina d’Europa” nel 2023: come titolava Il Sole 24 Ore lo scorso 29 dicembre. Ma successi consistenti si sono avuti anche nel mondo del lavoro. Secondo i dati Istat, nel 2023 gli occupati sono cresciuti di 490 mila unità. Il tasso di attività, pari al 66,9 per cento è il più alto degli ultimi dieci anni. Il tasso di disoccupazione (7,2 per cento), sebbene ancora troppo elevato, ai minimi storici dello stesso periodo. Fuori luogo, quindi, alcune polemiche, come quelle di Elly Schlein, che denuncia l’accanimento governativo contro i più fragili. Nessuna sorpresa: per la segretaria del Partito democratico non conta la forza emancipatrice del lavoro, ma solo l’assistenza pelosa fornita dallo Stato.

Di fronte a risultati positivi, le note dolenti riguardano gli assetti di finanza pubblica. Soprattutto l’esistenza di un deficit di bilancio che ha superato e di molto le più recenti previsioni della Nadef. Nel documento di governo si sperava in un saldo negativo pari al 5,2 per cento del prodotto interno lordo. L’Istat certifica invece un valore del 7,2 per cento: 2 punti di prodotto interno lordo in più rispetto alle previsioni. E un maggior tiraggio di oltre 42 miliardi. Il confronto tra le singole poste mostra un aumento delle entrate, rispetto alle previsioni, di oltre 15 miliardi. Le uscite, a loro volta, superano di 58,6 miliardi le stime della Nadef. Il saldo è quello indicato in precedenza.

Lo squilibrio maggiore si registra nella posta “Contributi agli investimenti” che mostra un maggior tiraggio di oltre 46 miliardi. Il lascito del governo giallorosso, a seguito dei famigerati bonus per l’edilizia. Quella manna che ha consentito ai più furbi di rimodernare le proprie abitazioni a carico di tutti noi. Secondo i calcoli dell’Enea, finora il costo accertato – quello di domani non è ancora noto – è stato pari a oltre 99 miliardi, di cui 70 (Federico Fubini) a carico del 2023. Tra le opere finanziare anche quelle relative a otto castelli, senza contare le truffe milionarie che di tanto in tanto emergono come funghi nelle giornate di pioggia.

Di fronte a questi dati, Giuseppe Conte fa spallucce e cerca di minimizzare, inventando storie che non reggono alla prova dei fatti. Ma quei cento miliardi equivalgono al 75 per cento del finanziamento del servizio sanitario nazionale. Che andrebbe ovviamente aumentato, se le risorse non fossero utilizzate in una logica che, dopo il reddito di cittadinanza, era rivolta a catturare il sostegno politico dei ceti più abbienti. Su quel fronte, quello della sanità, si sono concentrati gli strali più velenosi dell’opposizione. La spesa è stata tagliata: questo il grido di dolore. La dimostrazione del carattere classista di una politica economica che colpisce i deboli e gli anziani: questo il teorema.

Se si tiene conto, anche delle risorse del Pnrr, comunque (almeno in parte) a debito, la spesa sanitaria programmata è rimasta più o meno identica dal 2013 in poi. Pari, con leggere oscillazioni in più o in meno, al 6,5 per cento del prodotto interno lordo. E rimarrà tale, almeno secondo le previsioni fino al 2026. Si dovrebbe aumentare? Difficile negarlo. In questo intervallo di tempo la popolazione italiana è notevolmente invecchiata. È anche diminuita. Ma i due termini del problema non sono equivalenti. Il problema di un suo finanziamento, non solo sul piano quantitativo, rimane. E va affrontato senza facili accuse nei confronti di chi temporaneamente è alla guida del Paese.

Una parte consistente (25 per cento nel 2023) del finanziamento della spesa sanitaria – fu questa la riforma voluta da Vincenzo Visco – è legata all’Irap. L’imposta che grava sulle aziende ed è proporzionale al numero degli occupati. I quali, per ovvi motivi, sono in un’età in cui l’intervento del servizio sanitario nazionale è limitato. Chi è fuori dal circuito lavorativo, soprattutto i pensionati, che rappresentano il 31,2 per cento dei contribuenti, non contribuisce più al finanziamento della spesa sanitaria. Sebbene questi ultimi ne siano i principali fruitori. Un’evidente discrasia che, con l’invecchiamento della popolazione, si fortemente dilatata. Occorrerebbe, pertanto, un ripensamento generale: legato alla più generale riforma del fisco in Italia. Più facile a dirsi, che soltanto a immaginarsi.

Ma pensiamo positivo. Anche perché i dati di finanza pubblica non sono poi così negativi. Conforta l’andamento del rapporto tra debito pubblico e prodotto interno lordo. Il dato che Di Pace ignora. Dal massimo del 2020 (un balzo di oltre 20 punti di prodotto interno lordo in un solo anno, grazie alle politiche del duo Giuseppe Conte-Roberto Gualtieri), negli ultimi 3 anni, la riduzione è stata pari a 17,6 punti: dal 154,9 al 137,3. In passato per ottenere lo stesso risultato ci sono voluti 14 anni: dal 1994 al 2007. Durante questo intervallo il rapporto scese dal 120,1 al 103,9. Quindi buone notizie e una qualche speranza per l’immediato futuro. Sempre che la crescita – il dato che per la sinistra è solo un possibile optional – ci assista.



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