L’alone di incertezza che ha avvolto finora l’acquisizione della società di servizi e gestioni immobiliari, siglata ormai sette mesi fa, rischia di tramutarsi in un segnale poco rassicurante per chi ha investito, o ha intenzione di farlo, in Italia
Entro la fine di questo mese dovrebbe essere scritto l’ultimo capitolo sull’acquisizione da parte del gruppo Ion, dell’imprenditore italiano Andrea Pignataro, di Prelios, gigante della gestione di asset alternativi, attivo nei servizi immobiliari specializzati e con un patrimonio in gestione di oltre 40 miliardi che comprende crediti deteriorati, esposizioni unlikely-to-pay e fondi real estate, presieduto da Fabrizio Palenzona. Un deal formalizzato tra le parti oltre sette mesi fa eppure non ancora arrivato alla meta. Le seppur legittime e insindacabili prerogative del governo e una buona dose di interessi incrociati ne hanno dilatato i tempi, con il ragionevole rischio di arrecare un danno all’immagine del Paese. Di cui non si sente certo il bisogno.
Breve cronistoria. La scorsa estate, dopo quasi un anno di trattative, Ion ha raggiunto l’accordo con il fondo americano Davidson Kempner, che aveva rilevato Prelios nel 2017 (esercizio chiuso con una perdita di 33,8 milioni), per acquisire la società a fronte di un corrispettivo di 1,35 miliardi di euro. I fondi di private equity d’altronde, dopo qualche anno dall’investimento, puntano a uscire dal capitale, mettendo a gara il pacchetto di maggioranza e valutando l’offerta migliore. La quale si è dimostrata quella della holding di Pignataro, che vanta diverse controllate all’estero e per la quale l’operazione con Prelios rappresenta una delle più importanti acquisizioni degli ultimi anni.
Nel tempo, Ion ha investito nello Stivale circa 5 miliardi, rilevando per esempio Cedacri (servizi di outsourcing per il settore bancario), seguita da Cerved (credit information e credit management) quindi List (software per il settore finanziario). Senza dimenticare l’ingresso nel Monte dei Paschi nel corso dell’ultimo aumento di capitale da 2,5 miliardi (2%) e le partecipazioni di minoranza detenute in Cassa di Volterra (32%) e Illimity (9,6%).
Un attivismo che ha contraddistinto anche il fondo di private equity statunitense che già da tempi non sospetti ha deciso di scommettere forte sull’Italia. Lo scorso novembre, per esempio, il fondo gestito da Anthony Yoseluff, ha raggiunto l’accordo per l’acquisto del terminal portuale ravennate Setramar, di proprietà della famiglia Poggiali, a cui bisogna aggiungere la possibile altra operazione, questa volta in Alto Tirreno, che guarda al gruppo spezzino Dario Perioli, che nel porto di Marina di Carrara controlla e gestisce il Mdc Terminal.
Ancora, la scorsa primavera, il fondo ha preso in concessione il sito lucano di stoccaggio di gas naturale Cugno le Macine, il più grande dell’Italia meridionale. E, tornando a Prelios, da quando Davidson Kempner ha rilevato Prelios, per la società meneghina è cominciato un progressivo risanamento, che l’ha portata a chiudere gli ultimi sei bilanci consecutivi con una crescita a doppia cifra, fino a chiudere il 2022 con un utile di 90 milioni di euro e un ebitda di 140 milioni.
Cosa c’entra tutto questo? Dalla scorsa estate, quando cioè è stato sottoscritto l’accordo di vendita tra Davidson Kempner e Ion, i tempi dell’operazione come detto si sono sensibilmente dilatati. Il governo italiano, nella sua piena legittimità, ha deciso di applicare al deal, che ha già incassato il via libera dell’Antitrust, la normativa sul Golden Power. Sottolineando ancora una volta l’assoluta legittimità dell’esecutivo di valutare l’applicazione del Golden Power, non è chiaro cos’abbia Prelios di strategico: il gruppo gestisce immobili e crediti non performing, ha piattaforme di analisi del rischio immobiliare e un grande database di cui però non è proprietario effettivo.
Al di là delle valutazioni in corso d’opera da parte di Palazzo Chigi, a cui vanno anche aggiunti alcuni e già citati interessi incrociati che potrebbero aver contribuito ad allungare i tempi e con essi l’incertezza sull’esito dell’operazione, quello che forse non andrebbe sottostimato è l’effetto psicologico. Il messaggio che arriverebbe a chi ha investito, o semplicemente ha intenzione di farlo, in Italia alla stregua del fondo americano sarebbe quello di una eccessiva complessità e incertezza del sistema Paese, anche per le operazioni non strategiche. Un gioco a perdere, che può far male agli interessi italiani e alla sua credibilità, al netto del fatto, non è certo un mistero, che la burocrazia italiana sia qualcosa storicamente o quanto meno spesso indecifrabile per molti investitori. E allora, viene da chiedersi, se il gioco valga la classica candela.