Il mondo è cambiato, le forze armate sono chiamate all’uso delle armi per proteggere un ordine internazionale che, sebbene perfettibile, ha finora garantito pace ed equilibrio, e che le potenze revisioniste intendono rimodellare a proprio vantaggio. Mentre la Duilio protegge la sicurezza collettiva, Iran, Cina e Russia si esercitano a poche miglia nautiche di distanza
Il cacciatorpediniere italiano Caio Duilio è tornato a sparare, abbattendo due droni nel Mar Rosso durante la missione di protezione delle rotte commerciali tra Europa e Asia in cui è impegnato come Force Commander. È il secondo ingaggio cinetico nel giro di dieci giorni, ma non è tanto questo il punto rilevante, dato che ormai anche l’opinione pubblica (le Forze armate lo hanno già fatto da tempo) dovrà abituarsi che il tempo delle missioni di peacekeeping condotte senza sparare un colpo è finito, perché siamo in una fase storica di profondi – quanto rapidi – cambiamenti dell’ordine internazionale che ha regolato negli ultimi sette decenni le nostre quotidianità. Ed è questo il tema.
Tant’è che mentre il Duilio è impegnato con altri assetti di Stati Uniti e Unione Europea in un’operazione per tutelare la sicurezza collettiva – che si proietta ben oltre i nostri confini, anzi: non possiamo pensare di essere sicuri in casa se non proteggiamo la sicurezza nel nostro cortile e nelle nostre strade – contemporaneamente, dicevamo, un’altra coalizione di volenterosi si esercita, con altri fini, a poca distanza dalle rotte messe ormai sotto scacco totale dagli Houthi. Sul Golfo dell’Oman, Cina, Russia e Iran si muovono insieme in una delle manovre congiunte in cui quei volenterosi mossi dal desiderio di cambiare quell’ordine internazionale – creando un paradigma revisionista, un modello alternativo a quello composto da sistemi e valori democratici – dimostrano il loro affiatamento tattico e strategico.
Da notare che quei tre Paesi – che ne hanno sensibilizzati altri a partecipare alle manovre, ammaliati dalla narrazione anti-occidentale – dicono di muoversi insieme perché hanno a cuore la sicurezza marittima di quelle acque che rappresentano il costrutto geostrategico che stiamo definendo “Indo Mediterraneo”. Ma non partecipano di fatto alle attività per riordinare chi quella sicurezza l’ha distrutta. Anche perché gli Houthi si muovono usando armi (e forse informazioni di intelligence) iraniane, e hanno già dichiarato che le navi russe e cinesi possono sentirsi tranquille perché non saranno oggetto di bersagliamenti diretti. Eppure, la True Confidence – nave colpita nei giorni scorsi da un missile balistico anti-nave di fabbricazione iraniana lanciato dagli Houthi, che per altro ha prodotto anche i primi morti di questa campagna di guerra – stava trasportando acciaio e automobili cinesi verso Jeddah, in Arabia Saudita.
Ma la Cina, così come Russia e Iran con ragioni diverse, accettano perdite pur di usare il contesto a proprio vantaggio. Tanto che il portavoce del ministero degli Esteri iraniano ha diffuso la lettura della crisi della teocrazia, spiegando che tutto accade perché gli Stati Uniti stanno sostenendo Israele nell’invasione di Gaza (aspetto discutibile, ma lo è anche l’affermazione così totale) e per questo hanno sensibilizzato l’azione degli Houthi – che dichiarano di attaccare i mercantili amici di Israele, ma poi colpiscono anche quelli con interessi cinesi e tempo fa anche uno diretto in Iran. E quasi contemporaneamente gli esperti di turno citati dal Global Times – in una tecnica che serve a far dettare la linea del governo cinese da figure esterne al governo stesso così da far sembrare certe posizioni frutto di ragionamenti più tecnici, dunque accettabili – affermano che la causa principale dell’espansione del conflitto lungo l’area indo-mediterranea risiede fondamentalmente negli Stati Uniti e nella loro soppressione dei diritti e degli interessi legittimi della Palestina.
Ed è una linea per rendere giustificabile la loro assenza dal sistema di contenimento degli Houthi, anzi quasi a renderlo condivisibile, con qualcosa che suona simile alla ricostruzione secondo cui l’invasione su larga scala russa dell’Ucraina è conseguenza diretta dell’espansione a Est della Nato. Ricostruzione che fa parte della storiografia revisionista di Vladimir Putin, che è a sua volta parte di quella volontà di riordinare il mondo a proprio vantaggio. Un mondo che con la guerra putiniana è tornato indietro di secoli, quando era routine che un leader decidesse che per regolare le proprie insicurezze interne fosse utile l’attacco armato a un altro Paese – e il dibattito in corso sulla necessità che l’Ucraina issi bandiera bianca sembra spostare l’asticella a favore di quell’uso della forza.
Ma è proprio qui che si torna al punto di partenza: nel disordine che si sta creando, i militari potrebbero essere chiamati a ruoli più attivi per evitare il peggio in un impegno propedeutico a permettere la protezione di un ordine che sarà pure piano di problemi (certamente da risolvere, e al più presto), ma ha più volte evitato una nuova guerra mondiale. Comunicare le singole attività come fa la Marina, o il CentCom americano, è parte dunque di una necessità di trasparenza che serve a evitare che questa guerra culturale e materiale, che ha già toccato il warfare informativo nel profondo, dilaghi in ulteriore caos e disordine.