Grazie all’autorizzazione dell’editore, pubblichiamo il commento di Gianfranco Morra apparso sul quotidiano Italia Oggi diretto da Pierluigi Magnaschi.
Il nuovo vangelo è stato attaccato su 55.000 edifici scolastici. Così il governo Hollande ha inaugurato il nuovo anno scolastico. Un testo in due parti («Stato laico» e «Scuola laica»), che non è solo indicativo, ma prescrittivo e obbligatorio per tutti. Il decalogo si è esteso in 17 articoli, martellanti e perentori: statalismo molto, libertà poca; si chiama «Carta della laicità», ma esprime un laicismo intollerante e poco democratico: «l’eguaglianza vi uccide la libertà» (Edgard Morin): la sinistra non è più un credo politico, ma una nuova religione integralista (Alain Finkielkraut: «une gauche divine»).
Il demiurgo di questa «rivoluzione culturale» è il ministro dell’Educazione nazionale (anche in Italia per vent’anni si è chiamato così), Vincent Peillon: uno scolaro di Merleau-Ponty, autore de La rivoluzione non è finita. Un libro in cui proclama l’incompatibilità di cattolicesimo e laicità: «la morale religiosa va sostituita con una laica e repubblicana; il luogo più utile per strappare i bambini dai loro legami prerepubblicani e farli diventare cittadini è la scuola». Le religioni sono molte e chiunque può professarle nel privato, ma non nella scuola, dove ce n’è una soltanto, quella laica e statale, obbligatoria per tutti i cittadini. Dalla separazione siamo passati alla proibizione, la religione di Stato, cacciata dalla porta, rientra dalla finestra.
È roba del passato. Peillon propone cose vecchie di oltre due secoli. Danton: «i fanciulli appartengono alla repubblica prima che ai loro genitori» (1793). È la linea intransigente del laicismo francese che viene ripresa: dall’insegnamento obbligatorio della «morale laica», voluto dalla legge Combes del 1905 e abolito nel 1968, che tornerà dal 2015; al tentativo di Petain di un «riassetto intellettuale e morale» (1941); sino alla proibizione nelle scuole (2004) di ogni «ostentato segno religioso» (abiti o simboli), pensando soprattutto al velo islamico.
In effetti il principale bersaglio del documento non è il cattolicesimo, ormai in Francia piuttosto abbandonato o laicizzato, ma l’islamismo, con la sua distinzione tra maschi e femmine. Ma non è solo una giusta richiesta di eguaglianza. Peillon non ama l’aggettivo «sesso», preferisce parlare di «gender». Egli intende l’«eguaglianza delle femmine e dei maschi» come «decostruzione degli stereotipi sessuali». La laicità repubblicana si apre al sesso «perverso e polimorfo» (Marcuse), secondo il precetto di Sade: «Ancora uno sforzo, cittadini, se volete essere davvero repubblicani» (1795).
Peillon difende le nozze gay e appoggia il reato di «omofobia». Forse che la cultura francese non è stata in gran parte fatta dai gay (Rimbaud, Proust, Gide, Cocteau)? Il documento intende favorire una rivoluzione sessuale, ad uso dei LGTB (lesbiche, gay, trans e bisex): «guerra al sessismo sin dall’asilo». E basta con le feste della mamma, che discriminano quelle convivenze in cui i figli ci sono ma la mamma manca. Diverranno feste dei genitori. Anche se è una parola da usare con cautela. Se in Italia la Kyenge ha proposto di sostituire nei documenti «padre e madre» con «genitore 1 e 2», Peillon preferisce una definizione ancora più asettica: «responsabile legale 1 e 2».