Gli Stati Uniti non hanno più la forza di essere leader mondiali con conseguenze evidenti sull’Occidente e la sua tradizione. Il sostegno all’Ucraina è un’operazione in chiave anti-cinese e anti-tedesca. L’Italia ha ancora una forza diplomatica ma deve rinsaldare i rapporti con l’Africa e la Russia. Colloquio con l’economista Sapelli sul suo ultimo libro
È un viaggio nel mondo che si sta sbriciolando. L’ultimo libro dell’economista Giulio Sapelli è una fotografia che prende le mosse da un assunto, che per l’Occidente pone più di una domanda: “Gli Usa, non sono più capaci di essere leader mondiali”. A questo punto, viene da chiedersi, cosa resterà di questa porzione di mondo e soprattutto del modo in cui l’abbiamo conosciuto fino a ora? È evidente che gli spartiacque sono i conflitti attualmente in corso, tanto in Ucraina quanto in Medio Oriente, ma in “Verso la fine del Mondo. Lo sgretolarsi delle relazioni internazionali” (Guerini e Associati) Sapelli va molto oltre.
Professor Sapelli, perché definisce quello americano un imperialismo “riluttante”?
Perché gli Usa, laddove è chiesto loro di assumersi le responsabilità che si richiedono a un grande Paese, fanno un passo indietro. Praticano l’unilateralismo e non hanno più la capacità di essere il leader mondiale che sono stati. E la dimostrazione tangibile è che oggi, sempre più, si parla di geopolitica e non di relazioni internazionali come invece aveva insegnato Henry Kissinger.
Che effetto ha questa riluttanza nel contesto occidentale in cui ci troviamo oggi?
Un effetto disastroso. Tutto parte dall’aver rinunciato ad avere un esercito europeo e di aver investito tutto sulla Nato, che la Russia ha interpretato, da sempre, come una minaccia. Non va mai dimenticata la loro storia. Sia sotto il profilo della tradizione diplomatica, sia sotto il profilo della reazione all’offesa.
Nel quadro del conflitto in Ucraina, però, è stata la Russia a invadere un Paese sovrano.
Ciò che ha fatto la Russia di Putin è un abominio che va condannato su tutta la linea. Ma non dimentichiamoci che, dal 2014, il presidente della federazione ha invaso la Crimea in un contesto europeo sostanzialmente assente. La guerra in Ucraina è un conflitto che gli Usa stanno sostenendo per contrastare la Germania – che ha garantito prosperità all’economia cinese in questi anni – e sostenendo la Polonia in chiave anti-Russa. E quindi anti-cinese.
Nell’area indo-pacifica, però, gli Usa sono stati tutt’altro che riluttanti.
No, infatti. In quella regione hanno fatto bene a spingere affinché il Giappone tornasse a dotarsi di un arsenale nucleare. Anche in questo caso, è un’operazione portata avanti in chiave di contrasto alla Cina e di conseguenza alla Germania.
C’è una grande variabile che si profila all’orizzonte: l’elezione del nuovo presidente degli Stati Uniti. Lei come la vede?
Un’eventuale vittoria di Trump sarebbe una sciagura. Rappresenterebbe in qualche modo l’apoteosi dell’impero riluttante. Mi pare che la l’unica linea ragionevole sul conflitto in Ucraina l’abbia espressa papa Francesco.
Alzare bandiera bianca rappresenterebbe una resa per l’Ucraina.
Il conflitto scatenato dalla Russia non può essere un’operazione a somma zero. Occorre negoziare. E il terreno del negoziato sarebbe la cessione della Crimea alla federazione russa. Su questo va convinto il presidente Zelensky.
Con queste posizioni corre il rischio di essere etichettato come filo-putiniano.
Non sono assolutamente filo-putiniano e ribadisco che l’invasione dell’Ucraina è un abominio che va condannato. Sono però indignato per la solitudine in cui è stato abbandonato il dissenso in Russia. C’è una larga parte di popolazione russa che è contraria alla linea di Putin e che andrebbe ascoltata di più.
L’Italia, in questo quadro così complesso, che ruolo gioca?
Il nostro Paese ha la fortuna di avere una grande scuola di politica estera e diplomatica. Negli anni ci siamo un po’ troppo sbilanciati verso i Paesi Arabi, ma ora occorre più che mai rinsaldare i rapporti con la Russia e con l’Africa.