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Ora si vota chi si ama. Lo spiegano Petrolo e Incantalupo

Oggi più che mai i principi del marketing vengono applicati nella comunicazione politica. Ma come per i prodotti commerciali anche per la politica vale il principio: Content is the king. Un pessimo prodotto non funzionerà mai, neanche con grandi campagne di marketing e lo stesso vale per la politica. Il libro di Petrolo e Incantalupo

Il titolo è già piuttosto accattivante e sintetizza bene un “sentiment” elettorale diffuso. Stiamo parlando di Chi mi ama mi voti, edito da Guerini e Associati. Un libro che indaga nel profondo l’intreccio sempre più evidente tra le dinamiche della comunicazione politica e quelle del marketing. Gli autori, che a Formiche.net sottolineano gli aspetti salienti del volume, sono Domenico Petrolo e Lorenzo Incantalupo.

Esiste ancora un confine netto tra comunicazione politica e marketing?

Non esiste un confine netto. Oggi più che mai i principi del marketing vengono applicati nella comunicazione politica. Ma come per i prodotti commerciali anche per la politica vale il principio: Content is the king. Un pessimo prodotto non funzionerà mai, neanche con grandi campagne di marketing e lo stesso vale per la politica. Si possono usare gli strumenti del marketing per speculare sul malcontento del momento, magari capitalizzando consenso nell’immediato, o per costruire una propria identità politica solida, che abbia una prospettiva di medio e lungo termine e che valorizzi la proposta politica.

Le tecniche del marketing, oggi più che mai, sono adoperate dalla politica?

Sì, se pensiamo a molte delle tecniche di pubblicità e ancor di più alla comunicazione digitale che ha consentito ai partiti di modulare il proprio messaggio rispetto all’utenza di riferimento e al pubblico da raggiungere: il potenziale elettore. Una tecnica di marketing sempre più consolidata e ormai centrale nella comunicazione politica. Le regole del consumo, in sostanza, vengono declinate in politica. D’altronde l’elettore è un consumatore.

All’interno del volume, tra gli altri, intervistate Antonio Palmieri. Lo stratega della comunicazione politica di Silvio Berlusconi. Molti fanno corrispondere la svolta nella comunicazione politica proprio alla discesa in campo del Cavaliere nel 1994. È così?

Quella fu la prima grande rivoluzione comunicativa e politica. E, come dice giustamente Palmieri, oggi ci troviamo nel trentesimo anno della comunicazione politica berlusconiana. Tutti i principi della comunicazione che Berlusconi declinò con la sua discesa in campo, sono ancora attuali e applicati da partiti e leader. Dal nome del politico nel simbolo alla foto del candidato sui manifesti. Con lui, in qualche modo, nascono i partiti personali. I partiti dei leader.

Un pioniere?

Senz’altro. In passato c’erano stati dei tentativi di “aggiornamento” della comunicazione politica da parte della Dc, anche con il coinvolgimento di esperti americani, ma furono sempre tentativi velleitari e poco significativi. Berlusconi portò in politica tutte le tecniche comunicative – a partire dai sondaggi – che adoperava da uomo di impresa. Al di là del giudizio politico, fu una svolta epocale.

Beppe Grillo quando lanciò il movimento, provando a superare alcune dinamiche di rapporto tra elettori e classe politica, inaugurò una stagione nuova sotto il profilo della comunicazione. Cosa resta di quella stagione?

Grillo, dopo Berlusconi, è stato l’attore della seconda rivoluzione comunicativa e politica degli ultimi trent’anni. Nel nostro libro Rocco Casalino ripercorre le tappe di questa rivoluzione. Attraverso la rete, il Movimento 5 Stelle è riuscito ad intercettare in maniera diretta e disintermediata l’umore dell’elettorato canalizzandolo in consenso elettorale. Ciò che resta di quella stagione è, in parte, anche il lessico politico profondamente mutato e quel sentimento anticasta che è ancora vivo in mezzo a noi. Basti pensare al dibattito sul finanziamento pubblico ai partiti, tutti i politici in privato ne invocano il ripristino ma nessuno ha il coraggio di proporlo pubblicamente.

La disintermediazione inaugurata dal renzismo ha modificato il rapporto tra elettori e comunicazione politica?

Quando Renzi irrompe sulla scena politica, per la verità, c’erano già stati in precedenza diversi passi verso la disintermediazione: dall’elezione diretta dei sindaci, alla discesa in campo di Berlusconi all’attività dei grillini. Il Vaffaday era del 2007. Il vero clamore destato da quell’esperienza, forse era dovuto più al fatto che per la prima volta a disintermediare era un uomo di sinistra. Un ragazzo di Firenze, che dalla Leopolda, senza simboli di partito, lancia l’assalto al quartier generale infrangendo tutte le vecchie liturgie e portando con sé questo approccio anche a Palazzo Chigi. Questo è, a ben guardare, forse l’aspetto più significativo. In una comunità, quella del centrosinistra, refrattaria all’idea di una leadership forte.

Spesso si imputa alla classe politica una sostanziale inadeguatezza a dare risposte ai problemi dell’elettorato. Quando incide sul fatto di essere spesso più concentrati a fare gli influencer piuttosto che a concentrarsi sui dossier strategici?

Se chiude gli occhi per qualche secondo può sentire ancora il rumore delle monetine dell’hotel Raphael. Quella pioggia metallica ancora oggi annichilisce la politica. La più grande responsabilità della classe dirigente è non riuscire a riaffermare il primato della politica, far uscire la politica da quella condizione di fragilità che è un alibi perfetto per tutto il resto della classe dirigente del paese. Ed in queste condizioni è difficile occuparsi strutturalmente dei “dossier strategici”.

In che situazione si trovano, dunque, gli elettori?

Gli elettori vivono una condizione difficile, l’idea di un futuro migliore viene vista come una chimera; quindi, si scommette ogni volta sul leader o la leader di turno sperando nella svolta. Questo genera inevitabilmente un circolo vizioso: elettori desiderosi di cambiamento immediato, leader che promettono l’impossibile ma che poi una volta eletti non sono in grado di realizzare, anche perché il sistema non lo consente, elettori delusi che votano un nuovo leader e si ricomincia da capo. Oggi Giorgia Meloni è forte, ma magari là fuori da qualche parte c’è un potenziale leader che oggi ha il 3%, o che magari neanche conosciamo, ma che fra quattro anni potrebbe prendere il 30%.

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