I poteri del Presidente della Repubblica, il premier eletto direttamente dai cittadini e le prerogative dell’elettorato. La riforma istituzionale sta creando molto dibattito nel Paese: tra chi ne sostiene l’urgenza e chi invece mette in guardia da possibili rischi. Le opinioni a confronto, ieri pomeriggio alla Camera, all’evento organizzato dal presidente dell’Academy Spadolini, Luigi Tivelli
Non capita spesso di sentir dibattere di presidenzialialismo, premierato e più in generale riforme istituzionali l’ex premier Lamberto Dini e il presidente della Commissione Affari Costituzionali al Senato, Alberto Balboni. Così come non capita di frequente di ascoltare la relazione in punta di diritto – benché con punte politiche – del costituzionalista Tommaso Edoardo Frosini e l’intervento dell’ex deputato Pino Pisicchio in nome di Giovanni Sartori. Il tutto condito con la conclusione del vicepresidente della Camera, Fabio Rampelli.
È riuscito in questa impresa, invece, il presidente della Academy Spadolini, Luigi Tivelli, che proprio ieri pomeriggio ha organizzato un momento di confronto alla Camera, con l’iniziativa “Un bivio istituzionale complesso. I pro e i contro dell’elezione diretta del premier”.
Dini e Balboni partono da due prospettive diametralmente opposte. Il primo, critica aspramente la riforma, il secondo ne sta curando l’approvazione. L’ex presidente del Consiglio ritiene che, così come è concepita, questa riforma se approvata “sconvolgerebbe la Repubblica parlamentare”. Benché “sia favorevole al rafforzamento del presidente del Consiglio – aggiunge Dini – non è accettabile che vengano ridotti i poteri del Presidente della Repubblica”.
Il premierato, il cui iter sta procedendo proprio nella Commissione presieduta da Balboni, a detta dell’ex premier “provocherebbe pesanti scossoni al Paese, fino a spaccarlo a metà”. Dunque se si vogliono rafforzare i ruoli di presidente del Consiglio ed esecutivo occorre “un modello simile a quello del cancellierato tedesco”. Ma soprattutto bisogna evitare che questa riforma, attraverso il referendum “faccia la fine di quella che fu la proposta di Matteo Renzi”.
Tivelli intermezza gli interventi degli ospiti fornendo di tanto in tanto una pillola delle sue, sul tema in questione. Facendo spesso riferimento proprio alle attività dell’Academy Spadolini, non prima di aver ricordato Giacomo Matteotti.
A prendere la parola, a questo punto, è Balboni che – in punta di diritto – boccia l’ipotesi legata all’introduzione del cancellierato tedesco. Ma, il punto che gli sta più a cuore, rispecchia la linea assunta a più riprese dalla premier Giorgia Meloni. “Il Capo dello Stato – scandisce il senatore meloniano – non è stato immaginato dai padri Costituenti come un attore politico, bensì come un garante super partes. Ebbene, nella riforma concepita da questo esecutivo, tutte le sue funzioni di garanzia sono salvaguardate. Certo, non nominerà più i senatori a vita e non nominerà più il premier. Anche su questo secondo aspetto, però, mi pare che sia un modo per restituire ai cittadini la loro prerogativa di esercitare la sovranità”.
Il concetto è molto chiaro: “La volontà degli elettori non deve essere una variabile indifferente nelle decisioni politiche”. Qui arriva il secondo punto. “L’elezione diretta del premier garantirà una maggiore stabilità agli esecutivi e sarà un elemento di credibilità anche in politica estera, oltre che un modo per evitare di disperdere ingenti risorse pubbliche”. Balboni, infatti, in chiusura cita alcuni dati economici legati alla discontinuità degli esecutivi nella storia della Repubblica: 68 governi in 75 anni. “L’assenza di governi stabili – chiude l’esponente di FdI – negli ultimi anni ha portato a una perdita, calcolata dagli economisti, di 265 miliardi di euro. Circa trecentomila posti di lavoro persi. Per cui, approvare questa riforma, rappresenta anche una potente leva di carattere economico”. Senza considerare il fatto che “il presidenzialismo, è stato inserito nel programma elettorale grazie al quale – votati dagli italiani – ora ci troviamo a governare”.
Frosini, al di là dell’aspetto di merito legato alle questioni giuridiche sulle quali si concentra la riforma, si avventura in un riconoscimento politico. “Il presidenzialismo – osserva – è sempre stato nel dna della destra. Ma non solo: anche il repubblicano Randolfo Pacciardi fu uno strenuo difensore del presidenzialismo”.
Tra l’altro, il costituzionalista, sposta l’asse della discussione rilevando che “il Presidente della Repubblica non è oggetto di questa riforma. È invece oggetto della riforma il presidente del Consiglio”. E su questo punto la sua è una visione molto chiara, aderente a quella della maggioranza. “Eleggiamo, in modo diretto, il sindaco e il presidente della regione – analizza Frosini – non capisco perché non si possa dare agli elettori la facoltà di decidere chi eleggere come presidente del Consiglio”.
Il punto, insomma, è di opinione pubblica. Perché “non si può sottrarre ai cittadini il diritto di voto” e pensare che con il premierato proposto dal governo possano esserci derive “è pura speculazione strumentale: c’è un solido sistema di pesi e contrappesi che fortunatamente mette al riparo il sistema istituzionale da questo tipo di possibilità”.
L’esortazione iniziale di Dini, rivolta agli esponenti della maggioranza, è stata quella di “confrontarsi e di trovare una soluzione condivisa con i membri dell’opposizione”. Anche su questo, però, Frosini taglia corto: “Rispetto a quello presentato originariamente – chiude – l’attuale formulazione della proposta di riforma è profondamente diverso, essendo stato modificato anche attraverso l’accoglimento di alcuni emendamenti. Dall’opposizione, comunque, non sono arrivate idee sulla riforma costituzionale se non critiche aprioristiche”.
Chi invece è particolarmente critico sulla riforma è Pisicchio che, dal suo punto di osservazione di politico di lungo corso, smonta la narrazione della riforma punto su punto. Ricordando i naufragati, tristi, precedenti di riforma costituzionale, l’ex deputato arriva al punto: “Non esiste un’esperienza di premierato elettivo, se non quella israeliana che andò malissimo – afferma -. Ci sono invece delle esperienze di premierato, non elettive come quella inglese, che invece avrebbero tanto da insegnarci”.
Proprio sull’Inghilterra, Pisicchio ricorda che “l’avvicendamento di diversi premier nell’ambito della stessa legislatura, non ha provocato alcun tipo di contraccolpo”. Un’altra ipotesi che l’ex sottosegretario porta avanti è quella del “cancellierato tedesco”. Paradossalmente il presidenzialismo “ipotesi alla quale io sono fermamente contrario, è più coerente con altre esperienze che ci sono nel mondo occidentale”. Al contrario “il premierato elettivo distrugge e schiaccia le prerogative del parlamento, già fortemente indebolito per via dell’abolizione del sistema di voto a preferenza”.