In nome della lotta contro il riscaldamento globale, l’Europa indossa il saio del pentimento, ridimensionando se non distruggendo il proprio patrimonio industriale. Aprendo così la porta, o meglio il portone, alle maggiori esportazioni cinesi, la cui produzione ha sull’ambiente un impatto ancor più devastante. Il commento di Gianfranco Polillo
Se è vero che Giove toglie prima il senno di coloro che vuole rovinare, l’Unione europea sta percorrendo da tempo questa strada in discesa. Il green deal, vale a dire il programma per contrastare il riscaldamento globale, rischia di creare una desertificazione economica e produttiva ancor prima di scongiurare quella ambientale. Che comunque, alla fine, preverrà. La ragione di questo pessimismo è scritta nelle cose. Cose che la stessa Commissione, con una perfidia degna di miglior causa, si rifiuta ostinatamente di vedere. Sui pericoli che corre il Pianeta Terra, nulla da obiettare. I cambiamenti climatici in atto, il crescente riscaldamento globale è sotto gli occhi di tutti. Conseguenza del prevalere di quegli elementi patogeni che ben conosciamo: eccesso di CO2, di metano, di ossido di ozono e dei gas fluorurati. Secondo le indicazioni della stessa Commissione europea.
Queste sostanze impediscono, come nel caso del CO2, la dispersione del calore oltre lo spazio extraterrestre o riducono lo strato di ozono nella stratosfera, creando quel “buco” attraverso il quale transitano i raggi ultravioletti che hanno effetti deleteri sulla vita dei microorganismi animali e vegetali. Le ultime rilevazioni satellitari mostrano sull’Antartide una fessura che ha le dimensioni dell’intero Brasile. Anche se queste grandezze risentono delle variazioni stagionali. Al momento le preoccupazioni maggiori riguardano soprattutto l’eccesso di anidrite carbonica e del metano, principali responsabili del riscaldamento globale. Entrambe prodotte dall’attività dell’uomo. La CO2, secondo il documento della Commissione europea citato in precedenza, avrebbe una “concentrazione nell’atmosfera” superiore “al 48 per cento il livello preindustriale (prima del 1750)”. Mentre il metano avrebbe una vita più breve, ma con un “effetto serra” molto più potente.
Questo quindi lo stato dell’arte, anche se alcune valutazioni – la retrocessione dei calcoli fino al 1750 – lascia interdetti. Ma prendiamo per buone queste valutazioni. Cosa può fare l’Europa per allontanare i rischi del possibile disastro? Semplice – si risponde – scoraggiare l’uso dei combustibili fossili e quindi riconvertire, per intero, il suo apparato produttivo nonché settori importanti della vita di tutti i giorni. Per queste ragioni, il green deal prevede una serie di misure, al fine di far sì che l’Europa diventi “il primo continente a impatto climatico zero entra il 2050”. Misure che riguardano: la decarbonizzazione del settore energetico (75% delle emissioni di gas a effetto serra), la ristrutturazione degli edifici al fine di ridurre i consumi di forza motrice (attualmente pari al 40%), la riconversione del sistema industriale verso un maggior uso dei materiali riciclati (attualmente solo il 12%), l’introduzione di forme di trasporto pubblico e privato (che oggi pesa per il 25% sulle emissioni) più pulite ed efficienti.
In principio, 2015 (Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici – COP21 – di Parigi), era previsto che le emissioni di gas serra dovessero raggiungere il picco prima del 2025 al più tardi, per poi diminuire del 43% entro il 2030. Ma poiché a sinistra c’è sempre qualcuno che è più puro di te, ecco che con un lungo lavoro, iniziato nel luglio del 2021 e terminato nel novembre 2023, l’Ue ha prodotto, sotto forma di direttiva, il “Fit to 55%”. Regole destinate ad inasprire e non di poco – ma vedremo tra un attimo con quale realismo – le precedenti disposizioni.
Grazie ad esso il target di riduzione del gas serra non sarà più pari a 43, ma dovrà diventare del 55 per cento, rispetto alle emissioni del 1990. Per raggiungere questo risultato sono previsti una serie di vincoli che vanno dall’estensione del “Sistema di scambio di quote di emissioni (Ets)” con riduzione del tetto dei permessi rilasciabili, alla nascita del “Meccanismo di adeguamento delle frontiere al carbonio (Cbam)”: in pratica dazi nei confronti di quei Paesi Terzi che non rispettano i vincoli ambientali in settori come l’acciaio, il cemento o i fertilizzanti. Per i trasporti marittimi ed aerei si prevede solo l’uso di combustibili sostenibili. Mentre per i veicoli privati, si dovrà porre fine alla vendita di auto con emissione di CO2 a partire dal 2035. Segnando così la morte di quel prodotto che aveva segnato la vita del ‘900.
Altre misure riguardano, infine, il pacchetto energia. Occorrerà migliorare l’efficienza energetica degli edifici per ridurne il consumo e promuovere l’aumento delle fonti di energia rinnovabili nel mix energetico europeo. Obiettivi, questi ultimi, progressivamente alzati, sempre in vista del 2030. Dall’iniziale 30%, indicato dalla Direttiva 2018/2001 (REDII – Renewable Energy Directive Recast) si passa al 42,5%. E poi, con le regole del REPowerUE, al 45. Per conseguire questi risultati – si deve aggiungere – l’Europa ci metterà del suo, grazie all’istituzione di un “Fondo per il clima sociale” che ammonta a 86 miliardi di euro.
Si può dissentire da questo schema? Sarebbe come parlar male di Garibaldi. Sono invece le fondamenta di questa complessa architettura che non sembrano avere la giusta tenuta. Secondo i dati forniti dalla Commissione Europea (EDGAR – Emissions Database for Global Atmospheric Research) le emissioni di gas serra, nel periodo 1990/2020) sono diminuite, in Europa, di circa 1,3 miliardi di tonnellate equivalenti di CO2. In percentuale di circa il 26,4 per cento. Per raggiungere l’obiettivo di una riduzione del 55 per cento, sempre rispetto al 1990, nel decennio 2020-2030, dovrebbero ridursi di altri 2,7 miliardi. Una percentuale doppia rispetto ai risultati di un intero trentennio. Potrebbe essere un auspicio. Anche se ha più l’aspetto di un miraggio. Destinato a trasformarsi in un incubo, se si guarda ai costi – si pensi solo all’industria automobilistica italiana – che quella sfida comporta.
C’è poi un discorso geopolitico, che non può essere ignorato. La lotta contro il surriscaldamento globale, proprio perché globale, non può essere che planetaria. In altre parole non ci può essere un pugno di Paesi virtuosi che indossano il cilicio ed altri che vivono nella spensieratezza della dissipazione. Nel 2022, sempre secondo i dati indicati in precedenza, l’80 per cento delle emissioni totali di gas serra è stato prodotto da 17 diversi Stati (considerando l’Ue come un’entità sovranazionale) più l’insieme dei trasporti internazionali. La parte del leone è spettata alla Cina (36,5 del totale dei 18), seguita da Stati Uniti (14%), India (9,2%), Ue (8,4%) e Russia (6%). Gli altri Paesi presentano una percentuale inferiore al 3%.
La riflessione che questi dati sollecita è evidente. Per quanto l’Ue potrà fare, non inciderà, se non in minima parte, sulla soluzione del problema. La sua potrebbe essere una scelta che salva la coscienza, ma nemmeno questa magra soddisfazione sembra essere alla sua portata. Dati gli attuali rapporti di forza nei settori green, l’Ue ha bisogno dei tempi necessari per resistere ad una concorrenza destinata, altrimenti, a fagocitarla. Si pensi solo alle autovetture elettriche o ai pannelli solari. Settori in cui la Cina spadroneggia. Una tempistica sbagliata non produrrebbe altro che un aumento delle importazioni da quei Paesi. Un danno evidente, da un punto di vista economico generale. Che si accompagnerebbe ad una vera e propria beffa.
Secondo i dati del Fmi, nel 2022 le esportazioni cinesi nella sola Zona euro (circa 463 miliardi di dollari) sono state pari al 12,9 per cento di quelle complessive. Le importazioni invece (circa 250 miliardi) poco più della metà. Il suo attivo commerciale di conseguenza (213 miliardi) è stato pari al 23,9 per cento del totale. Questo per dimostrare quanto sia già forte un legame di dipendenza. Destinato, inevitabilmente, a crescere se l’Ue dovesse immolarsi nel nome dell’ambientalismo. Un sacrificio, per altro, del tutto inutile. L’aritmetica del clima mostra, infatti, che la parte più rilevante delle emissioni cinesi di gas serra deriva proprio dalla sua caratteristica di essere diventato l’hub industriale dell’intero Pianeta.
Impressionanti i rapporti che riguardano il confronto con l’Ue a 27. In tutti i settori collegati alla produzione di beni materiali le emissioni di gas serra, da parte della Cina, sono tra le 5 e le 8 volte superiori a quelle europee. Grazie soprattutto al peso che le esportazioni di questi beni hanno sul complesso delle attività economiche. Ed ecco allora la portata della beffa, di cui si diceva in precedenza. In nome della lotta contro il riscaldamento globale, l’Europa indossa il saio del pentimento, ridimensionando se non distruggendo il proprio patrimonio industriale. Aprendo così la porta, o meglio il portone, alle maggiori esportazioni cinesi, la cui produzione ha sull’ambiente un impatto ancor più devastante. Difficile, quindi, avallare una prospettiva, che sembra prefigurare un nuovo capitolo nella storia dell’eterogenesi dei fini.