Oltre la delusione di Prodi per la scelta della segretaria dem di candidarsi capolista alle europee c’è la rivincita di un ex segretario, Matteo Renzi, che ha scelto i social per criticare la decisione di Schlein, ricordando cosa successe nel passato. L’analisi di Andrea Cangini
All’amarezza di Romano Prodi, evidentemente inascoltato quando ha chiesto a Elly Schlein di non candidarsi ad europarlamentare sapendo che non avrebbe ricoperto quel ruolo e comprensibilmente sconcertato dalla decisione “personalistica” di inserire il nome della segretaria nel logo del Pd, corrisponde la malcelata soddisfazione di Matteo Renzi. Una rivincita.
L’ex segretario dem ha, infatti, gioco facile nel ricordare che, pur accusato di eccessi leaderistici dai propri avversari interni, nel 2014 si astenne dal mettere il proprio nome nel simbolo del partito e dal candidarsi “per finta” alle europee. Il Pd, cinguetta dunque il leader di Italia Viva su X, “è diventato il PdS, partito di Schlein”. Un goal a porta vuota. Soprattutto ricordando la retorica antileaderistica e ossessivamente “pluralistica” che ha caratterizzato la prima fase della segreteria Schlein. “Il Pd è un partito plurale, io non ho mai creduto nei partiti personali”, disse la segretaria lo scorso ottobre. “Questo è l’unico partito che prende la forma di chi lo abita e non di chi lo guida”, ribadì il mese successivo. Ecco, dunque, la teoria. Cui, però, è seguita una pratica ben diversa.
Come conciliare, infatti, la natura plurale di un partito nato dall’incontro tra i cattolici di sinistra provenienti dalla Democrazia cristiana e gli ex comunisti provenienti dai Ds con la scelta della segretaria Schlein di riprodurre sulla tessera del partito gli occhi, inconfondibili, di Enrico Berlinguer? Ovvio che tale trovata, che risponde ad evidenti ragioni di marketing elettorale e ad una disperata ricerca di identità, abbia fatto sentire la componente cattolica ospite non gradito nel partito. Segue la decisione di candidare nel ruolo di capolista alle europee due simboli del cosiddetto pacifismo, cioè a dire della linea contraria al sostegno militare del popolo ucraino, come Cecilia Strada e Marco Tarquinio.
Un modo per contenere il Movimento 5 Stelle di Giuseppe Conte, che è arrivato al punto di inserire la parola “pace” con tanto di hashtag nel simbolo del proprio partito. Scelta che si può capire nella logica del marketing elettorale, ma che poco attiene alla retorica del partito cosiddetto plurale. Insomma, la decisione di candidarsi alle europee, pur sapendo che mai metterà piede a Bruxelles, e quella di inserire il proprio nome nel logo del partito, pur ricordando le levate di scudi dei suoi attuali sponsor interni, da Bersani in giù, quando tale ipotesi riguardava il detestato Matteo Renzi, è stata solo l’ultimo atto di una serie di scelte politiche oggettivamente sorprendenti. Niente di diverso da quel che accade negli altri partiti, s’intende, dove, però, si ha l’accortezza di non trincerarsi dietro retoriche moralistiche di segno contrario fatalmente destinate ad essere smentite dai fatti.