In questi giorni è partito il road show del governo di Riyad per cercare fondi con cui finanziare la realizzazione della metropoli futuristica nel golfo di Aqaba. Ma i colloqui con i potenziali investitori del Dragone si sono rivelati per ora infruttuosi. E i motivi ci sono
L’Arabia Saudita si mette sulle tracce dei fondi del Dragone, per finanziare il megaprogetto Neom, l’avveniristica città nel deserto dell’Arabia Saudita a impatto zero, che dovrebbe vedere la luce entro la fine del 2025. Il progetto, guidato dal principe ereditario Mohammed bin Salman e la cui realizzazione potrebbe costare 500 miliardi di dollari, è stato lanciato nel 2017. Secondo i piani di Riyad, dovrebbe ospitare una stazione sciistica futuristica e un edificio lungo 170 chilometri, costruito dal Golfo di Aqaba attraverso il deserto.
Ma servono soldi e forse il petrolio, in tempi di guerra in Ucraina e di prezzo dell’oro nero ancora troppo ballerino, potrebbe non bastare. E allora perché non bussare alla porta del Dragone, fresco di monito del Fondo monetario internazionale? Sempre che qualcuno apra la porta. E così l’Arabia Saudita ha portato il suo road show sul progetto Neom in Cina, a Pechino, Shanghai e Hong Kong. In questi giorni i rappresentanti del governo saudita hanno cominciato un lento corteggiamento degli investitori cinesi.
Eppure, nonostante gli sforzi, i rendering (la riduzione in scala del progetto, ndr) non avrebbero scaldato più di tanto i cuori. Vale a dire che i potenziali investitori cinesi, non si sarebbero più di tanto lasciati abbindolare, lasciando gli emissari sauditi a bocca asciutta. Non sarebbero, infatti, stati annunciati accordi degni di nota, ma solo qualche stretta di mano più formale che altro. Tra i presenti figurava Leonard Chan, presidente dell’Associazione per lo sviluppo tecnologico innovativo di Hong Kong, il quale ha apertamente parlato di “reazione neutre” alla proposta araba. Insomma, Neom non pare interessare più di tanto la Cina.
Ma c’è una spiegazione a questo scarso interesse? Di certo Pechino ha le sue ragioni. Non bisogna mai dimenticare la situazione in cui versano le finanze pubbliche cinesi. E nemmeno l’ondata di sfiducia che ha colpito in questi mesi le piazze finanziare del Paese (nel periodo luglio-settembre dello scorso anno, i fondi esteri hanno venduto 80,1 miliardi di yuan di azioni in più rispetto a quelle acquistate tramite Stock Connect, il collegamento commerciale tra Hong Kong e le borse di Shanghai e Shenzhen, registrando la più grande vendita netta trimestrale dall’avvio del programma di accesso reciproco al mercato, iniziato nel 2014). E il trend è proseguito.
Dunque, difficile pensare che una Cina a corto di capitali possa investirne altri. Soprattutto se, come ha rivelato il Wall street journal, sulla Repubblica Popolare incombono nuove sanzioni americane. Sì, perché gli Stati Uniti starebbero preparando nuove misure volte a scollegare potenzialmente alcune banche cinesi dal sistema finanziario globale. Questo per fermare il sostegno economico di Pechino alla produzione militare russa. Non è un caso che il Segretario di Stato, Antony Blinken, da oggi in visita in Cina, abbia criticato Pechino per il suo ruolo nel sostenere l’industria della difesa russa, sottolineando che la Cina è un importante fornitore di componenti essenziali per le armi russe utilizzate in Ucraina.