C’è un momentum attorno al possibile cessate il fuoco nella Striscia di Gaza. Le riunioni al Cairo per il rilascio degli ostaggi procedono (più positivamente di quanto visto finora), mentre il ministro Tajani incontra altri omologhi a Riad (dove ci sarà anche Blinken). Hamas e Israele potrebbero aver interessi (sebbene diversi) nel fermare la guerra
Il vice presidente del Consiglio e ministro degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, Antonio Tajani, arriverà questo pomeriggio a Riad, dove parteciperà a una serie di incontri e riunioni sulla guerra nella Striscia di Gaza e in generale sulla crisi in Medio Oriente (incontri organizzati a latere del meeting speciale del World Economic Forum). Siamo davanti a una fase importante, c’è una luce in fondo al tunnel per un cessate il fuoco consistente. Tajani coglierà l’occasione per presentare anche le ultime valutazioni del tavolo di coordinamento romano dietro all’iniziativa “Food for Gaza”, attivata dal governo italiano insieme a Fao, Programma Alimentare Mondiale (agenzie Onu che hanno sede a Roma) e con la Federazione internazionale della Croce Rossa e della Mezzaluna Rossa. Per Tajani, “lo scopo è premere per un cessate il fuoco immediato, per il rilascio di tutti gli ostaggi israeliani e per far entrare al più presto, massicciamente, gli aiuti per la popolazione civile di Gaza. L’emergenza è insostenibile, va affrontata immediatamente”.
“Immediatamente” è l’avverbio del momento. Una fonte dell’ala politica di Hamas ha detto domenica sera alla AFP che non ci sono “questioni maggiori” riguardo all’ultima proposta di Israele ed Egitto per un cessate il fuoco nella Striscia di Gaza: “L’atmosfera è positiva a meno che non ci siano nuovi ostacoli israeliani. Non ci sono problemi importanti nelle osservazioni e nelle richieste presentate da Hamas per quanto riguarda il contenuto” della proposta. Una delegazione del gruppo palestinese — il cui attentato del 7 ottobre ha aperto l’attuale stagione di scontro, con la risposta violenta di Israele — sarà al Cairo oggi per proseguire la discussione con i mediatori egiziani e qatarini.
Siamo probabilmente davanti a un “momentum” (copyright Joyce Karam), anche se le variabili sul tavolo aumentano l’imprevedibilità. Il quadro è articolato: mentre le delegazioni tecniche lavorano al Cairo, anche il segretario di Stato Antony Blinken farà tappa in Arabia Saudita (di ritorno dalla Cina, aspetto tutt’altro che banale), e le pressioni americane contro l’invasione di Rafah si fanno insistenti. Il rischio è una catastrofe umanitaria, perché, come noto, oltre un milione di persone fuggite dai combattimenti nel nord della Striscia si sono rifugiate lì, al confine con l’Egitto — che intanto si è preparato per gestire la potenziale ondata migratoria.
La crisi che rischia di esplodere ha portato l’Egitto ad aumentare il suo peso diplomatico, anche in termini di ritmo della corsa che va in scena queste ore. Occorre evitare l’espansione della guerra e sfruttare il momentum, “immediatamente”. Il presidente statunitense Joe Biden ne ha parlato (e non è la prima volta) al telefono con il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu; sottolineando di aver “ribadito la sua chiara posizione” (di contrarietà all’attacco a Rafah) e di aver discusso dei negoziati in corso al Cairo (e a Riad) con maggiore produttività di conversazioni precedenti.
Netanyahu è anche preoccupato che la Corte penale internazionale (Cpi) possa emettere un mandato di arresto per lui e molti altri alti funzionari, riferisce il quotidiano israeliano Maariv e a questo si legherebbe l’attuale postura. Negli ultimi giorni Netanyahu ha telefonato a leader e funzionari internazionali, in particolare ne avrebbe parlato con Biden, per impedire l’emissione di un simile mandato di arresto. Non è chiaro quando potrebbe essere emesso e non è consuetudine che il tribunale riveli tali informazioni. Non è chiaro quanto questo possa avere peso sulla nuova disponibilità con cui il governo israeliano sta affrontando questa fase in cui ha aperto al “ripristino di una calma sostenibile”.
È la prima volta dall’attacco di Hamas che i leader israeliani hanno suggerito di essere aperti a discutere la fine della guerra a Gaza come parte di un accordo di ostaggi. La fine della guerra è d’altronde considerata fondamentale dal gruppo armato palestinese — aspetto ripetuto, il cessate il fuoco, durante questi mesi di negoziati per il rilascio degli ostaggi. Gli ostaggi, appunto: Hamas (per la prima volta, ancora) ha fornito un video in cui dimostra che almeno due ostaggi sono vivi — l’americano Keith Siegal è il protagonista del video, ma le immagini includono una prova di vita di un altro ostaggio, Omri Miran.
Ma c’è anche un altro elemento legato agli ostaggi: il gabinetto di guerra israeliano ha autorizzato la squadra dei negoziatori inviata al Cairo, per la prima volta anche in questo caso, di discutere il rilascio di meno di 40 ostaggi. Ossia meno di quelli che facevano parte della precedente proposta di negoziato — in cambio di sei settimane di cessate il fuoco e del rilascio di circa 900 prigionieri palestinesi. Quei 40 ostaggi includevano donne, donne soldato, uomini di età superiore ai 50 anni e in cattive condizioni mediche. Secondo Hamas non ci sono più di 20 persone che soddisfa i questi criteri.
Il momentum è anche legato a una sensibilità percepita direttamente dai leader di Hamas: i gazawi non sopportano più la guerra e accusano il gruppo politico/militare di averli trascinati nella guerra e nella più drammatica delle distruzioni. Il conflitto ha costretto alla fuga dalle proprie case la maggior parte della popolazione della Striscia di Gaza, ucciso decine di migliaia di persone e spinto l’enclave verso la carestia, mettendo le infrastrutture locali in rovina (e serviranno anni, oltre che soldi, per ricostruire). Se Hamas voleva iniziare una guerra, “avrebbe dovuto prima mettere al sicuro le persone, assicurarsi un luogo di rifugio per loro, non gettarle in una sofferenza che nessuno può sopportare”, ha detto al Washington Post — che ha condotto un’indagine giornalistica tra i residenti della Striscia — Salma el Qadomi, una giornalista freelance che è stata sfollata 11 volte dall’inizio del conflitto. I palestinesi vogliono leader “che non trascinino le persone in una guerra come questa”,’ dice el Qadomi — e come lui diversi altri intervistati.. “Quasi tutti intorno a me condividono gli stessi pensieri: vogliamo che questa cascata di sangue si fermi. Diciassette anni di distruzione e guerre sono sufficienti”.