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Le nazionalizzazioni russe sono un macigno sulle relazioni globali. L’opinione di Guandalini

La reazione di Putin di appropriarsi delle industrie occidentali, l’italiana Ariston e la tedesca Bosch, sono la conseguenza prevedibile del conflitto russo-ucraino e del congelamento dei conti e dei beni in Occidente. È possibile uscirne solo rivedendo il sistema delle sanzioni. L’opinione di Guandalini

Non ci stupisce lo slancio di Putin di nazionalizzare le aziende europee in Russia. Di recente la tedesca Bosch e l’italiana Ariston. L’ha spiegato bene un coraggioso editoriale di Maurizio Belpietro su la Verità dal titolo “Sequestrano i conti russi ma se Putin reagisce si stupiscono”. La rappresaglia del  capo del Cremlino è proporzionata all’operazione di congelamento dei beni e dei conti russi in Occidente (e in prospettiva  l’uso delle riserve russe per finanziare la ricostruzione in Ucraina,  uno stravolgimento fuori norme dei regolamenti internazionali che condurrebbe ancor più in un far west le relazioni commerciali globali). A ogni azione corrisponde una reazione uguale o contraria. Non c’è molto da spiegare. E da meravigliarsi, à la guerre come à la guerre. È il giorno dopo della travagliata quanto disordinata politica sanzionatoria verso la Russia da parte dell’Occidente che ha stravolto gli equilibri del Continente.

Le conseguenza del conflitto

E nel contorto bilancio profitti e perdite sono stati  più i vantaggi verso l’economia di oltrecortina (si leggano i rapporti del Fondo Monetario Internazionale) che a casa nostra (dal convulso approvvigionamento energetico al costo proibitivo delle materie prime). Si aggiungono i costi esorbitanti a carico dello Stato italiano per mantenere i beni (dai  panfili, fermi nei porti agli immobili) sequestrati agli oligarchi russi. È il passivo del conflitto russo-ucraino che si protrae da troppo tempo e sta trascinandosi a fondo perduto (con la certa vittoria espansiva di Mosca su Kyiv) senza l’adozione di alcuna risoluzione negoziale tra le parti ma il continuo accaloramento di un’escalation scarica come quella di Macron che non fa altro che prolungare l’agonia di Kyiv.

Per le imprese nazionalizzate in Russia non possono far nulla né  la Germania e neppure l’Italia. La dichiarazione del ministro degli Esteri italiano, “Sostegno europeo per le imprese italiane espropriate in Russia”, è ritardataria e già nei suoi presupposti ininfluente. Come per  il rifornimento del gas così anche per i danni che la politica sanzionatoria avrebbe provocato alle imprese occidentali, si doveva prevedere, anticipare, prevenire, due anni fa, invece di coltivare una politica fai da te che abbiamo poi visto fare dei guasti. Il gruppo nutrito delle piccole e medie aziende del made in Italy, quelle dell’export, si è arrangiato, come sempre, attraverso triangolazioni (per dribblare le sanzioni), altri non hanno avuto nemmeno questa necessità visto che imprese dei nostri distretti impegnate in produzioni settoriali  hanno continuato liberamente, senza impedimenti, a partecipare a fiere e mostre sul suolo russo.

Le nazionalizzazioni russe sono un boomerang

Le nazionalizzazioni avviate dalla Russia sono un atto controproducente scaraventato su quei pochi e minimi spiragli rimasti accesi nei rapporti  con l’Italia sempre forieri di risultati, dallo stabilimento Fiat di Togliattigrad nel 1966 alle joint venture del periodo gorbacioviano. È una pietra tombale sulle relazioni commerciali basate soprattutto sulla fiducia reciproca. Precetto che vale anche nei legami con la Cina. E che non tocca solo l’impegnativo, oggi raro, investimento produttivo occidentale sul territorio russo, ma in particolare quei tanti incontri di piccolo e medio taglio che nostre aziende hanno acceso e coltivato autonomamente, esportando prodotti, trovando corrispondenti commerciali. Quale affidabilità e credibilità s’instaurerà oggi?  Un piccolo ma anche medio imprenditore ci penserà più volte prima di rischiare insolvenze  compromettendo la sopravvivenza stessa dell’azienda.

È una cesura pesante sul futuro. Conseguenza dell’inarrestabile escalation del conflitto (che si colloca dopo un lungo periodo di chiusure relazionali provocate dalla pandemia). A rimetterci sono i nostri imprenditori, il sistema Paese assente dall’inizio della guerra. Nel contemporaneo è un vuoto economico che inciderà sui bilanci e sull’occupazione di casa nostra. Si può ovviare, in parte, ricercando nuovi mercati d’investimento e di commercio che non può essere la contropartita nella partecipazione alla ricostruzione dell’Ucraina, per ora sulla carta. Dall’altro per i grandi investimenti, nei regimi autarchici come la Russia, per i grandi business, le relazioni sono tenute agli alti livelli diplomatici e ministeriali, per favorire il buon esito dell’affare,  a questo punto non rimane che attendere un raffreddamento della tensione tra le parti coltivando saggiamente vie di dialogo. Rivedendo il sistema sanzionatorio. Che è diventato uno scaricabarile degli effetti negativi da un Paese all’altro. Si pensi  alle gravose sanzioni (commerciali, finanziarie e tecnologiche) disposte da Biden nei confronti della Cina che riverseranno sull’Europa, in particolare in Germania, l’epicentro del sistema manifatturiero continentale a cui l’Italia è primo alleato nel farlo girare a ritmo sostenuto.



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