La Cina ha un netto vantaggio in termini di assemblaggio ed è così che si spiega la sterzata di Stellantis verso il Dragone. Se il Vecchio continente vuole recuperare terreno, ha solo due strade: rimettere mano ai sussidi o rallentare la transizione dal motore endotermico all’elettrico. I dazi? Questione più politica che industriale. Colloquio con l’esperto e saggista, inviato del Sole 24 Ore
La Cina avanza, metro dopo metro. Si incunea nel mercato automobilistico europeo, grazie ai ponti costruiti dall’Ungheria e da Stellantis. La prima ospiterà la gigantesca fabbrica di veicoli elettrici di Byd, il principale costruttore cinese che oggi vende auto al 30 o 40% in meno rispetto all’Occidente, grazie ai generosi sussidi ricevuti dal governo. La seconda, a partire da settembre, venderà in tutto il Vecchio Continente veicoli a marchio Leapmotor, altra casa del Dragone.
Negli Stati Uniti hanno preso la questione molto sul serio, tanto da porre dazi sulle auto elettriche cinesi fino al 100%. Non si può dire lo stesso dell’Europa, dove sembra prevalere la cautela, anche se la strada dei dazi non va assolutamente esclusa. La domanda di fondo però è: come leggere l’avanzata cinese? E quale la contraerea da schierare? Formiche.net ne ha parlato con Paolo Bricco, autore di saggi sulla Fiat e grande esperto di automotive, oltre a essere inviato speciale del Sole 24 Ore.
“Il progressivo irrobustirsi della Cina nel mercato automobilistico europeo dimostra quanto l’Europa stessa abbia difficoltà a competere con il Dragone, non solo sul fronte della produzione ma anche e soprattutto dell’assemblaggio”, premette Bricco. “Lo stesso Carlos Tavares (ceo di Stellantis, ndr), nel presentare l’accordo con Leapmotor, ha detto di voler attendere di capire se i costruttori europei saranno all’altezza della Cina nell’assemblaggio. In altre parole, occorre che il Vecchio Continente agganci Pechino nella competitività nell’assemblare auto. Altrimenti la questione della concorrenza non si risolverà e forse assisteremo a nuovi accordi tra case europee e la Cina”.
Secondo Bricco, “per riequilibrare il mercato dell’elettrico, ci sono due strade. O si aumentano i sussidi pubblici a favore di gruppi industriali europei, sul versante della mobilità elettrica, oppure si rallenta il processo di dismissione del motore endotermico, provando così a tagliare la strada alla Cina. Non esistono strade alternative. Il problema è che Bruxelles, quando ha deciso di iniziare il disimpegno dall’endotermico nel nome della transizione, non ha tenuto conto degli effetti devastanti sui costruttori continentali e dei costi per realizzare un’auto verde. Costruttori che ora necessitano di sussidi per stare al passo della Cina sull’elettrico”, chiarisce Bricco. “Insomma, o si pensa di allungare la vita al motore tradizionale o si danno più soldi alle case automobilistiche europee, affinché possano colmare quel gap sull’assemblaggio che tanto le penalizza”.
Stringendo il campo sull’Italia, Bricco fa notare come “il fatto che la Penisola abbia sempre avuto un solo produttore, la Fiat, è un dramma: nel momento in cui Stellantis riduce la produzione in Italia e in Europa, ci lascia senza costruttori alternativi. D’altronde, lo stesso accordo con Leapmotor per commercializzare auto cinesi, dimostra come la strategia di Stellantis non sia per nulla morbida e denota come il contrasto tra la stessa casa e il governo italiano abbia un doppio senso. Da una parte fa vedere la difficoltà del gruppo di investire in Italia, dall’altra la fatica del Paese a garantire le condizioni per una migliore produttività. In questo ha ragione il ministro Adolfo Urso quando dice che ci serve un secondo costruttore”.
E dazi? “Una questione politica, soprattutto guardando agli Stati Uniti. In Europa ci sono asimmetrie industriali con la Cina, radici diverse, unite all’incompatibilità degli interessi di Stellantis con l’Ue. Insomma, problemi industriali profondi. Queste sono le vere divergenze. Poi ci sono le guerre commerciali e lì entra in gioco la politica, quella americana. Washington ha messo dazi per 16-18 miliardi di dollari, cifra irrisoria, ma politicamente molto rilevante. I dazi, almeno di questa portata, sono più un atto politico che industriale”.