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Antonio Padellaro, je ne regrette rien. La lettura di D’Anna

Quasi cinquanta anni di politica e cronaca vissuti in prima fila nelle redazioni e dalla cabina di regia dei principali giornali e periodici nazionali. Un diario d’esperienze professionali, spesso inedite, che Antonio Padellaro ha riversato in un libro che non dimentica nulla. La recensione di Gianfranco D’Anna

Giornalismo, oh caro! Parafrasando inconsciamente un’aria della Traviata, Antonio Padellaro, una lunga sfilza di cadreghe nei principali quotidiani e settimanali nazionali ed un medagliere di articoli più affollato delle divise dei feldmarescialli nord coreani, ripercorre malinconicamente ed autoironicamente la sua lunga e prestigiosa carriera giornalistica.

Affollato da Dei della scrittura e dell’editoria, da pochi leader e da molti quaquaraquà della politica e non, più che autobiografico quello che si intuisce essere il penultimo libro di Padellaro “Solo la verità lo giuro. Giornalisti artisti pagliacci” (Edizioni Piemme), spicca invece il volo fin dalla prima pagina sulle molteplici ed ancora enigmatiche, per non dire inquietanti, stagioni della politica.

A cominciare dalla P2 e dallo spettacolare episodio degli elenchi dei massoni iscritti alla loggia segreta di Licio Gelli che il 21 maggio del 1981 il giovane cronista Padellaro porta trafelato alla riunione di redazione del Corriere della Sera. “Dicci Antonio, di che nomi si tratta?” chiede serafico il direttore Franco Di Bella. Risposta secca: “Veramente direttore c’è anche il tuo…”.

Viste in controluce, secondo l’oggettiva intransigenza culturale non ideologica, di sapore gobettiano, del giovane cronista diventato nel frattempo editorialista del Corriere, vice direttore dell’Espresso, direttore dell’Unità e del Fatto, le figure di Aldo Moro, Bettino Craxi, Giampaolo Pansa, Claudio Rinaldi, Alberto Cavallari e Furio Colombo giganteggiano per la loro profetica lungimiranza, ancora attualissima ma purtroppo quasi dimenticata.

Mentre ad altri comprimari incrociati nel percorso professionale, come Eugenio Scalfari, Silvio Berlusconi, Valter Veltroni, Piero Fassino, Massimo D’Alema, viene riservata l’equiparazione, corroborata da specifici episodi, al delirio di onnipotenza che colpisce inesorabilmente tutti coloro che presumono di avere il monopolio dell’intelligenza.

L’approfondimento su Berlusconi e Scalfari consente inoltre di delineare le loro strabordanti personalità e, per il primo, gli sconvolgenti scenari che secondo la magistratura si intravederebbero dietro la sua scalata al potere.

Dell’autoproclamato deus ex machina del giornalismo italiano i retroscena svelati da Padellaro confermano, dall’angolazione inedita degli intrecci fra editoria, giornalismo e sinistra, il tentativo in gran parte abortito proprio per l’interposizione e le denunce del Fatto di Padellaro e Marco Travaglio, di accaparrarsi – pur fra gli indubbi meriti giornalistici – il “fonte battesimale” dal quale benedire o condannare senza appello esponenti politici, intellettuali, magistrati, imprenditori, giornalisti e rappresentanti delle istituzioni.

Il confronto indiretto fra la fondazione di Repubblica e quella del Fatto consente inoltre a Padellaro di specificare implicitamente che mentre l’Eugenio nazionale ha aggregato a propria esclusiva immagine e somiglianza la sua “creatura” editoriale partendo da una base industriale ed elitaria, contigua al potere, il Fatto nasce da un sostrato esclusivamente giornalistico e scaturisce da una iniziativa collettiva di repoter d’inchiesta.

Nessuna nemesi, ma l’autore ne regrette rien. L’epilogo del libro ha tuttavia qualcosa di inconcluso, come se ci si dovesse aspettare un seguito di ricordi, analisi e valutazioni sull’onda in fase crescente di un’esperienza giornalistica come quella di Antonio Padellaro sempre in pieno svolgimento.



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