La Chiesa ha contribuito a rinsaldare i governi della penisola nell’ultimo secolo. Mussolini si “comprò” la Chiesa con i Patti Lateranensi del 1929, la Chiesa fece poi il partito che resse l’Italia per mezzo secolo dopo la Seconda guerra mondiale, la Dc, e il cardinale Ruini sostenne Berlusconi per circa un ventennio. Forse oggi Meloni dovrebbe quindi essere prudente nel dialogo con Zuppi. Il commento di Francesco Sisci
Ci sono banali motivi di opportunismo politico, e più profonde ragioni di “missione” della Chiesa, perché la premier Giorgia Meloni faccia molta attenzione agli avvertimenti del presidente della Cei (Conferenza Episcopale Italiana), il cardinale Matteo Zuppi, sulla controversa vicenda dell’autonomia differenziata.
I motivi di opportunismo sono nella storia. La Chiesa ha contribuito a rinsaldare i governi della penisola nell’ultimo secolo. Mussolini si “comprò” la Chiesa con i Patti Lateranensi del 1929, la Chiesa fece poi il partito che resse l’Italia per mezzo secolo dopo la Seconda guerra mondiale, la Dc, e il cardinale Ruini, predecessore di Zuppi, sostenne Berlusconi per circa un ventennio.
Forse oggi Meloni dovrebbe quindi essere prudente nel dialogo con Zuppi. Infatti lei ha mosso altri due passi rischiosi. Si è allontanata dal governo francese di Emmanuel Macron per appoggiare la sua rivale Marine Le Pen, data come grande vincitrice alle europee. Ha poi sostenuto il leader della Lega Matteo Salvini in una polemica con il segretario generale della Nato Jens Stoltenberg sull’Ucraina. Su entrambi i versanti ci possono essere motivi di posizionamento sul voto ma ciò non toglie che le due tensioni si aggiungono alla questione della Cei e il composto non è salutare per il governo.
Ci sono poi ragioni di fondo per la preoccupazione della Cei. La riforma dell’autonomia differenziata e del premierato vogliono cambiare profondamente l’Italia e ciò naturalmente cambia la posizione esistenziale della Santa Sede, micro-stato nel cuore della capitale italiana. Che lo stato italiano diventi più forte o più debole significa che il Vaticano deve di conseguenza orientare diversamente le sue priorità per occuparsi di più o di meno della propria “vita politica materiale”.
Oggi la Santa Sede ha acquisito sempre più una proiezione globale e ha potuto farlo perché non ha più il fardello secolare dello Stato pontificio e nel corso degli ultimi decenni si è distaccata dalla vita romana. La sua sopravvivenza politica è demandata alla stabilità dell’Italia. Ma se l’Italia cambia la sua struttura, in bene o in peggio, non importa, muta automaticamente anche il rapporto con la Santa Sede. Per esempio, eventuali disordini a Roma riportano l’attenzione della Santa Sede sull’Italia allontanando la proiezione della Chiesa attuale verso l’Asia, patria del 60% della popolazione mondiale dove però solo il 2-3% sono cattolici.
Cioè se nel futuro la Chiesa non sarà forte in Asia diventerà insignificante. Qui le fedi principali sono islam, induismo, buddismo, declinate in una infinità di varianti locali. Il dialogo con queste religioni è allo stesso tempo essenziale e complicatissimo. Se Roma però si trasforma intorno alle mure leonine ogni progetto di proiezione asiatica diventa più difficile.
L’autonomia differenziata promette proprio questo, come potrebbe la Cei non preoccuparsene?
Senza contare le sue cause contingenti. La riforma rischia di essere approvata da una maggioranza ristretta che rappresenta circa un quarto della popolazione, poiché alle ultime elezioni quasi il 50% degli aventi diritto non è andato alle urne. Inoltre, il Presidente della repubblica Sergio Mattarella, che in una elezione diretta surclasserebbe qualunque contendente, è contrario.
Il tema non è nuovo. Mesi fa, su queste pagine avevo sollevato la delicatezza del rapporto stato-chiesa con l’autonomia differenziata. Ma forse il governo non ha visto o ha sottovalutato l’analisi. Così forse Meloni ha bisogno di ripensare profondamente molte cose del suo governo per non rischiare, dopo il voto, qualunque sia il risultato, di essere travolta dagli eventi.