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Modi vince, ma senza maggioranza. Il terzo mandato parte in salita

Modi vince le elezioni, ma il suo terzo, storico mandato parte con una difficoltà: il partito del primo ministro non ha più la maggioranza assoluta. Ha perso consensi e dovrà governare con gli alleati, mentre le opposizioni guadagnano spazio

Alla fine, il più grande messaggio che esce dalle elezioni indiane riguarda la democrazia, che nonostante le tante critiche e imperfezioni, ancora funziona. E funziona anche in un Paese dove il governo, nell’ultimo decennio, è stato accusato dalle opposizioni di contrarne alcuni presupposti: il primo ministro uscente, Nadrendra Modi, ha vinto le elezioni. Ma non c’è stata l’attesa cascata di voti: il suo partito, il Bharatiya janata party (Bjp), si è contratto di oltre sessanta seggi e non ha più la maggioranza assoluta in Parlamento (mai persa in dieci anni, finora). Il suo diretto concorrente, Rahul Ghandi alla guida del Congresso ha guadagnato consensi. In mezzo un serie di partiti minori che hanno ottenuto più seggi di quanto atteso e adesso saranno determinanti per le alleanze che formeranno il governo.

I risultati arrivano alla fine di uno scrutinio sorprendente, che chiude un mese di votazioni (l’India viene chiamata “la più grande democrazia del mondo” perché rappresenta quasi un miliardo e mezzo di persone, dunque sono comprensibili i tempi delle procedure). Il Bjp ha ottenuto 240 seggi, per la maggioranza assoluta dei 543 posti alla Lok Sabha ne servivano 272. Dal 2019 il partito di Modi ne aveva 303. Per capire quanto la riduzione fosse inattesa, basta pensare che per settimane si prospettava che il Bjp potesse addirittura raggiungere i 400 seggi di coalizione (ne raggiunge invece 292, sotto ai 300 delle stime meno positive). Il sondaggista che aveva messo in concreto certi numeri durante lo scrutinio piangeva in diretta televisiva. E a piangere sono stati anche i mercati, che prezzavano titoli basati sugli ultimi sondaggi iper ottimistici pro-Modi: durante lo scrutinio hanno perso circa il 6% sia il Sensex del Bombay Stock Exchange, sia il Nifty del National Stock Exchange.

Immagine nell’immagine: un giornalista per consolare quel sondaggista gli ricordava come negli anni passati fosse stato sempre bravo. Ed è lì il punto, gli anni passati. L’India di Modi, rispetto al passato, è cresciuta enormemente. È esplosa a livello economico ma anche a livello di standing internazionale. Il Subcontinente è una potenza del mondo multipolare in costruzione. Ed è percepita tale sia dal cosiddetto Global North (quell’Occidente ideale che va dall’asse transatlantico ai like-minded asiatici), fino al Global South, composto da dozzine di Paesi che cercano di evitare lo schiacciamento nella competizione tra potenze e intendono costruire il loro posto del mondo con la consapevolezza che serve sponda tra i più grandi. E l’India di Modi è diventata grande abbastanza da farsi sponda solida. Eppure, nonostante la percezione esterna, all’interno del Paese qualcosa ribolle, al punto che il partito nazionalista induista che ha fatto da piattaforma al progetto politico del primo ministro perde consensi, forse vittima delle disparità che la crescita (inevitabilmente?) ha creato.

Per Modi adesso si prospetta un futuro complicato. Dovrà fare il governo con alleati potenzialmente voltatili, che potrebbero condizionarne l’azione — i principali al momento sono il Telegu Desam, partito liberista con sostegno nelle aree meridionali in cui si parla la lingua telegu, e il Janata Dal, radicato nel Bihar. Nel frattempo dovrà fronteggiate un’ascesa delle variegate opposizioni (che con un’iperbole già chiedono mandato di governo). Il Congress, il partito liberal-sociale secolarista che sta cercando di magnetizzare uno schieramento eterogeneo (l’India, acronimo di Indian National Developmental Inclusive Alliance), ha guadagnato 47 seggi e altri guadagni li hanno avuti alcuni dei partiti più localizzati che lo appoggiano. È uscito da un letargo politico e operativo che durava da un decennio, sfruttando la catalizzazione di un sentimento anti-Modi prodotto dalla stessa campagna del Bjp, che forse ha commesso l’errore di raccontare le elezioni come un referendum sul primo ministro. Dinamiche sempre rischiose, perché le percezioni interne e iper-locali sono differenti dalle questioni strategiche: quello che ha portato l’India a essere un gigante globale non è detto sia accettato dai cittadini delle regioni più povere, dove gli effetti delle opere di sviluppo pensate dal governo tardano ad arrivare. Ed è questa l’enorme sfida del terzo, storico mandato di Modi: equilibrare l’India globale con quella nazionale, mentre la sua maggioranza non è così solida.

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