Pur attestandone la diffusione e le sue cangianti caratteristiche, l’Istat nella sua ultima rilevazione conclude che il fenomeno complessivamente si presenta in diminuzione nell’ultimo triennio, benché questa tendenza potrebbe essere transitoria perché influenzata dallo sconvolgimento economico e sociale prodotto dalla pandemia. L’analisi di Salvatore Zecchini
Tra i problemi cronici del Paese spicca da più decenni il fenomeno della corruzione, che appare assumere un’intensità particolare se confrontata a livello internazionale. A offrire un quadro meno preoccupante giunge da ultimo la rilevazione dell’Istat, che è stata condotta su un campione di meno di 30 mila individui nel periodo a cavallo tra il 2022 e il 2023. Pur attestandone la diffusione e le sue cangianti caratteristiche, il fenomeno complessivamente si presenta in diminuzione nell’ultimo triennio, benché questa tendenza potrebbe essere transitoria perché influenzata dallo sconvolgimento economico e sociale prodotto dalla pandemia.
La quota di famiglie oggetto di richieste in contropartita di prestazioni è scesa dal 2,7% degli anni 2013-2016 all’1,3% dell’ultimo triennio e allo 0,5% nei 12 mesi precedenti alla rilevazione, un calo generalizzato ai diversi settori con l’eccezione di quello assistenziale in cui l’incidenza è rimasta stabile all’1,4%. La riduzione più importante si è riscontrata nel mondo del lavoro e dei rapporti con gli uffici pubblici, con cali minori nei settori della sanità e della giustizia. In maggioranza le richieste sono state ricevute una sola volta, ma resta consistente la quota di quelle che le hanno subite più volte (29%).
Alla luce di questi dati si potrebbe arguire che si tratti di un fenomeno nel complesso limitato, pur avendo una sua consistenza e una certa diffusione. Purtroppo, questa impressione non si fonda su basi sicure, perché sebbene si siano compiuti progressi notevoli nella misurazione, rimane la convinzione anche nelle autorità preposte a contrastarla che la corruzione sia come un iceberg, di cui affiora alla luce solo una piccola parte. Diversi aspetti inducono a usare cautela nel trarre conclusioni dalle evidenze quantitative, che tuttavia costituiscono un progresso significativo rispetto ai consueti riferimenti alle percezioni di corruzione. Queste ultime sono, ad esempio, il metro su cui si fonda l’indicatore più comunemente utilizzato, quello di Transparency International, che assegna all’Italia il punteggio di 56 su una scala da zero a cento, collocandola al 42° posto rispetto al primo Paese (il più integro).
La stessa definizione del fenomeno corruttivo è soggetta a interrogativi, specialmente nei confronti internazionali. Dovrebbe comprendere anche la concussione, il peculato, l’appropriazione indebita, l’interesse privato in atti d’ufficio, il traffico di influenze e altre figure giuridiche che possono non rientrare nelle fattispecie di reato definite dalle norme di un paese, ma che denotano favoritismi e mancanza di correttezza nell’amministrazione di servizi pubblici, o nel mondo del lavoro, o nei rapporti tra imprese, come nel caso della concorrenza negli appalti e nelle autorizzazioni. La diversità delle definizioni secondo la legge del luogo inficia la validità dei confronti tra Paesi, in quanto l’attività sanzionata in uno potrebbe non esserlo in un altro.
Per altro verso, richiamarsi solo alle percezioni di corruzione non suffragate da dati oggettivi equivale a restare in un ambito soggettivo, altrettanto incerto e opinabile. Si può verificare addirittura il paradosso che proprio quando l’azione di contrasto si dimostra più incisiva nel far emergere e perseguire i casi di corruzione, l’opinione pubblica si rafforzi nella convinzione che in realtà il fenomeno sia sempre più in espansione.
Di fronte a tante incertezze, l’Anac, Autorità per il contrasto della corruzione, ha sviluppato un sistema differente di indicatori che tendono a misurare il rischio di corruzione riferendosi ad alcune caratteristiche del contesto in cui può maturare la corruttela. Il riferimento è a quattro ambiti, ossia l’istruzione, l’economia, la criminalità e il capitale sociale, ambiti relativi alle diverse aree del Paese e al mondo degli appalti. In altri termini si scompone il problema nelle componenti alla radice dei comportamenti inammissibili e si verifica in dettaglio la loro occorrenza nei contesti a maggior rischio.
In fondo, bisogna riconoscere che la corruzione nel nostro Paese da decenni è entrata a far parte della cultura sociale ed è divenuta un aspetto della società, che è difficile sradicare senza un profondo cambiamento della stessa cultura. Una società formata nel rispetto della legge e del ben convivere collettivo ha sempre meno bisogno di ricorrere a complesse definizioni di reato, a indagini giudiziarie, a prove inconfutabili e a organi giudiziari incorruttibili per contenere il fenomeno ai livelli minimi. Una corretta cultura sociale scoraggia il diffondersi della corruttela senza necessità di interventi repressivi.
Una prova di questo assunto può trarsi dalla stessa rilevazione dell’Istat. La stragrande maggioranza degli intervistati (oltre il 90%) concorda sul considerare la corruzione un danno per la società e sul dovere di combatterla. Ma questa maggioranza si abbassa un poco tra i meno istruiti (attorno all’86%) e al Sud e nelle Isole (88% e 91% rispettivamente). Una certa disparità di opinioni si rileva altresì nel considerarla un fattore di rincaro dei servizi pubblici, con una condivisione relativamente più bassa tra gli imprenditori e i lavoratori autonomi (70,5%).
Ancor più significativo è che una quota del 20% di persone non esposte al fenomeno ritenga accettabile la corruzione per trovare lavoro al figlio, o ammetta la raccomandazione per ottenere l’assunzione (16%). Per quanti conoscono episodi corruttivi la percentuale di quanti le ritengono accettabili in alcuni casi sale a circa un quarto degli intervistati. Ancor più ampia è la quota di persone che pensano che la corruzione sia un fatto naturale ed inevitabile (29,4%), con punte più elevate al Centro (38,6%) e tra coloro che conoscono cittadini coinvolti nel fenomeno (51,3%).
Altro specchio dell’atteggiamento della società si ricava dalle opinioni sul denunciare episodi corruttivi. In maggioranza si giudica pericoloso denunciare (63,4%), con picchi tra il 70 e l’80% diffusi da Nord a Sud. Per una minoranza di cittadini (23,1%) sarebbe addirittura inutile, ma le quote si ampliano quanto minore è il livello d’istruzione. Ancor più consistente la quota di imprenditori e lavoratori autonomi che credono che sia necessario pagare per ottenere licenze, concessioni, contratti con la P.A. o altri servizi (38,5%). Questa opinione è molto diffusa nel settore manifatturiero (71,5%), seguito da quelli dell’agricoltura e pesca (45, 9%) e delle costruzioni (42,2). Confortante, invece, che chi denuncia è giudicato positivamente da quasi tutti i cittadini (96% circa), mentre è indicativo di un contesto problematico il costatare che nel mondo delle imprese circa un terzo pensi che sia anche coraggioso.
Il quadro che emerge mostra uno scollamento tra il giudizio morale di condanna delle pratiche corruttive e i comportamenti di accettazione e tolleranza. Per una parte della società sembra che la corruzione faccia parte del consueto agire sociale e non si abbiano remore ad avvalersene quando sono in gioco contropartite importanti. L’acquiescenza e la pratica di cui si viene a conoscenza conduce inevitabilmente a diffondere le percezioni del fenomeno. Su questo versante, l’indagine dell’Istat mostra tra gli imprenditori un incremento della percezione di diffusione della corruzione rispetto alla rilevazione del 2016, un andamento contrastante con la riduzione complessiva delle richieste illecite, che si riferiscono al primo triennio del decennio.
Non dà il buon esempio neanche il mondo dei politici, tra cui la pratica del voto di scambio non è rara. L’Istat stima sulla base delle rilevazioni che a circa 1,2 milioni di cittadini siano stati offerti denaro o regali o favori in cambio del sostegno elettorale, una quota peraltro in diminuzione dal 3,7 al 2,7% della popolazione. La pratica risulta più diffusa in occasione delle elezioni amministrative e nelle aree del Sud e del Centro, che pur registrano consistenti riduzioni.
Tralasciando il ricorso degli estremi del reato di “scambio politico-mafioso” sanzionato nell’art.416 ter del Codice Penale, il voto di scambio si può catalogare come uno dei tratti evolutivi delle democrazie occidentali, di cui già parlava il grande storico della democrazia americana, A. De Tocqueville, nel lontano 1848. Il discorso è stato ripreso in tempi più vicini da N. Bobbio, il quale osservava che “nei regimi democratici, come quello italiano,…, vi sono buone ragioni per credere che vada diminuendo il voto di opinione e vada aumentando il voto di scambio…”.
In Italia grandi progressi si sono realizzati nell’ultimo quindicennio nel misurare e contrastare la corruzione, in parte su sollecitazione delle iniziative delle Nazioni Unite (l’Unodc), dell’Ue e della World Bank, ma soprattutto ad opera delle istituzioni pubbliche, tra cui l’Anac, e di alcune azioni governative sotto l’incalzare dell’opinione pubblica. Ma la battaglia è lungi dall’essere vinta, né potrà esserla in assenza di un profondo rinnovamento e di una diffusa elevazione della cultura sociale.