La situazione tra Israele e Hezbollah è sempre più tesa, e gli scontri creano un’ulteriore preoccupazione per la stabilità del Medio Oriente. Al G7 si discute anche di questo, mentre si lavora per il de-conflicting a Gaza
È sempre più probabile (per non scrivere certo) che nella dichiarazione conclusiva del vertice tra i leader del G7, in corso a Borgo Egnaiza in questi giorni, si inserisca un passaggio sulla necessità di bloccare la guerra nella Striscia di Gaza. C’è da selezionare attentamente il wording, lavoro che gli sherpa del G7 stanno portando avanti da tempo e su cui i capi di Stato e di governo hanno discusso informalmente soprattutto nella colazione di lavoro che ha concluso la Seconda Sessione del summit pugliese — quella appunto dedicata al Medio Oriente.
Secondo una bozza che circola tra i media, ma che deve ancora essere approvata, sarà quanto meno richiesto a tutte le parti di “astenersi da qualsiasi azione unilaterale che mini la prospettiva di una soluzione a due Stati”, e sarà condannato l’aumento della violenza estremista dei coloni israeliani contro i palestinesi in Cisgiordania e l’espansione degli insediamenti israeliani, e incoraggiato il sostegno ai servizi di sicurezza dell’Autorità Palestinese per preservare la stabilità in Cisgiordania e promuovere la creazione di uno Stato palestinese. Ma altri elementi potrebbero essere inseriti.
Le attività sono guidate dagli Stati Uniti, che dopo otto mesi di guerra si sono esposti sul massimo livello di coinvolgimento politico-diplomatico con la road map per il de-conflicting lanciata due settimane fa direttamente dal presidente Joe Biden. Per Washington c’è da gestire tre fattori: l’immagine innanzitutto, perché Biden è in campagna elettorale e il sostegno a Israele (attaccato e colpito da Hamas il 7 ottobre, ma colpevole di una reazione violenta e a tratti indiscriminata) rischia di costare consensi tra una porzione di elettorato democratico. Tema per altro condivisioni anche da altri leader del G7.
Gli altri due fattori sono: la questione umanitaria, corollario per certi versi del primo; la crisi regionale e internazionale, che anche in questo caso si incastra con il primo fattore se si considera come le forze rivali della democrazia (e dunque anche del G7) stanno raccontando il comportamento occidentale sul dossier (tra incoerenze e doppi standard, come evidenziato sul “Diario Indo Mediterraneo” di questa settimana).
Tutto (come sempre avviene in queste situazioni) si muove sul campo di battaglia, dove il cessate il fuoco — che gli Usa hanno istruito anche tramite una risoluzione onusiana — non sta arrivando; l’idea di accordo lanciata da Biden viene cavillosamente discussa mentre si combatte; gli scontri peggiorano ora dopo ora le condizioni dei civili (a cui mancano generi di prima necessità da settimane); le tensioni diplomatiche al sud — con l’Egitto che teme il fal-out dell’assalto a Gaza — diventano scontri critici al nord.
Lì Hezbollah è sul piede di guerra (tra l’altro mai pacificata sin dal 2006), e Israele risponde. Le catapulte che mandano palle infuocate appena oltre il confine libanese per far attecchire incendi e creare caos nei territori, che il partito/milizia collegato ai Pasdaran gestisce come una mafia, sono l’immagine di quanto la situazione si stia inacidendo. Anche per questo, Washington ospita il comandante dell’esercito libanese, il generale Joseph Aoun, per incontrare funzionari della Casa Bianca, del Pentagono e membri del Congresso sull’attuale crisi.
Gli Stati Uniti sono da sempre profondamente preoccupati che gli scontri — che durano sin dai giorni immediatamente successivi all’attentato di Hamas, ma sono in escalation — possano trasformarsi in guerra aperta. In mezzo alla spinta per raggiungere un accordo di cessate il fuoco a Gaza, una guerra vera e propria tra Israele e il gruppo militante libanese aggraverebbe terribilmente la crisi regionale e attirerebbe gli Stati Uniti più in profondità nel conflitto. Anche per questo, gli americani hanno ammonito gli alleati israeliani sui rischi di gestione anche di quella che potrebbe essere considerata “una guerra limitata”.
C’è sotto traccia la paura che il governo Netanyahu, costretto alla tregua sulla Striscia, possa anche soffiare sul fuoco del fronte settentrionale per mantenersi attaccato al potere — una guerra con Hezbollah potrebbe infatti essere considerata un fattore per cui evitare cambiamenti nell’esecutivo per interesse e sicurezza nazionale.
In un raid aereo martedì, Israele ha eliminato Taleb Sami Abdullah, il più alto comandante di Hezbollah ucciso dal 7 ottobre a oggi. Akhbar, media affiliato a Hezbollah, ha riconosciuto che Abdullah era un importante comandante sul campo e che la sua morte aveva inflitto un colpo significativo alla milizia. E in risposta il gruppo ha lanciato 200 razzi contro il territorio israeliano il giorno successivo (colpendo anche una fabbrica di veicoli blindati).
La situazione è molto delicata, tanto che anche dal Pentagono è stata diffusa una dichiarazione del segretario, Lloyd Austin: “Siamo preoccupati per un aumento dell’attività nel nord. Non vogliamo che questo si trasformi in un ampio conflitto regionale e sollecitiamo la de-escalation”.
Mentre viaggiava con il presidente Biden verso il vertice del G7, il consigliere per la sicurezza nazionale della Casa Bianca, Jake Sullivan, ha detto ai giornalisti a bordo dell’Air Force One che gli Stati Uniti “sono particolarmente preoccupati” per lo scambio di fuoco attraverso il confine con il Libano, sottolineando che gli Stati Uniti sono in stretta consultazione con Israele su questo tema. Se ne parla anche in queste ore a Borgo Egnazia e il gruppo presieduto dall’Italia potrebbe inserire anche questo specifico argomento nel Communiqué.