Stefano Monti riflette sul perché l’affluenza al voto nel nostro Paese è il riflesso di un progressivo e inesorabile allontanamento dei cittadini non tanto alla politica, ma alla cultura stessa della democrazia
Qualunque sia la forma che assume, la democrazia, come modello che un popolo sceglie per la sua gestione, si basa su un unico ed insindacabile principio: il governo deve essere in qualche modo riconducibile al popolo.
Nel nostro Paese, quindi, il parlamento viene costituito rispettando le ambizioni e i valori che gli individui esprimono attraverso le proprie scelte, e questo, almeno formalmente, garantisce che la gestione della cosa pubblica avvenga in coerenza con quanto il popolo in qualche modo percepisce come desiderabile.
Come rilevato da alcuni osservatori, le elezioni europee rappresentano la tipologia di fenomeno elettivo durante il quale è più probabile che emerga il malcontento da parte dei cittadini. Essendo l’Europa distante (condizione grave per quanto vera) le persone ne approfittano per dichiarare il proprio consenso o dissenso alla classe politica in carica, senza doversi preoccupare di tutte le implicazioni politiche del proprio voto.
Questa, almeno, è probabilmente la lettura che ha guidato Macron nell’identificazione della propria strategia.
Più preoccupati di dichiararsi vincitori, i nostri partiti politici hanno invece strategicamente deciso di ignorare il dissenso, ma si tratta di una strategia miope, perché le dimensioni di tale dissenso sono considerevoli, e anzi, tendono a crescere.
La forma più esplicita di dissenso è quella della scheda bianca o della scheda nulla: è una forma esplicita perché ci si reca alle urne per esprimere un non voto, che altro non è che un chiaro ed immediato dissenso nei riguardi di tutte le forze politiche. Più forte, anche se più silenzioso, di quel Vday durante il quale, qualche anno fa, un allora iper carismatico Grillo provò con successo a lanciare un movimento che mirava proprio a raccogliere i voti del dissenso.
Alle elezioni europee hanno effettivamente votato, secondo i dati ufficiali ancora provvisori, il 48,31% degli aventi diritto. Il che significa che meno della metà di coloro che potevano andare a votare si sono recati alle urne. È un dato che fa riflettere.
In realtà, è piuttosto pacifico che dovrebbe far riflettere proprio quelle forze politiche che malgrado i loro giubili comunicativi non sono uscite vincitrici: chi non va a votare non lo fa perché non vuole votare il partito in carica, ma non vuole nemmeno aderire ad una visione delle opposizioni, perché sono tutte percepite distanti da ciò che lo rappresenta. O peggio, non lo fa perché tutti i politici gli sono antipatici.
Questo passaggio, che sembra scherzoso, coglie invece un cambiamento che la nostra politica, supportata anche dalla qualità del palinsesto televisivo, ha cercato di imprimere nel nostro sistema democratico e che i social non hanno fatto che esacerbare: dalla democrazia degli inventi, a tratti cervellotica degli anni ’60 e ’70 del novecento, siamo passati alla democrazia dell’hype, del consenso, della simpatia.
La storia dell’affluenza al voto nel nostro Paese è il riflesso di un progressivo e inesorabile allontanamento dei cittadini non tanto alla politica, ma alla cultura stessa della democrazia.
Un esempio concreto può aiutare. Immaginiamo di vivere in un piccolo comune, in cui ci sono solo due negozi di abbigliamento femminile. Il primo propone moda per ragazze ma il proprietario-commesso è antipatico, il secondo propone moda donna over50 e il proprietario commesso è invece adorabile. Con molta probabilità, le ragazze decideranno di acquistare i propri vestiti nel primo negozio, malgrado la persona con cui dovrebbero avere a che fare è antipatica.
Adesso immaginiamo che all’improvviso la “moda” smette di distinguere tra abbigliamento da ragazze e abbigliamento da donne: come cambierebbero le cose? Che all’inizio il negozio più simpatico avrebbe quasi il predominio, predominio a cui il negozio “antipatico” dovrà trovarsi a rispondere con nuove strategie: diventare più simpatico o, ed è questo che cercano di fare molte opposizioni, cercare di definire meglio cosa sia la reale moda-donna, senza però riuscirci sempre in modo impeccabile.
Ecco: la nostra Italia vive un passaggio della cultura democratica del tutto analogo: assodata ormai la rilevanza piuttosto marginale dei programmi politici, resta il senso di simpatia-antipatia, e i reciproci attacchi tra i due schieramenti, spesso verbali, talvolta fisici.
È un meccanismo che può funzionare, certo. Ma che funziona soltanto nei riguardi delle persone che sono realmente interessate alla politica. Coloro che non indossano abiti da donna, non avranno motivi da andare in uno dei due negozi del paesino. Coloro che non si interessano di politica, tenderanno ad ignorare le pagine politiche, le bagarre televisive, e persino i video virali, avendo anche i meme politici una funzione di sfondo, utilizzata soltanto come contesto per il guizzo ironico.
Perdendo di contenuto, in pratica, la politica viaggia sull’onda del consenso, ma non interessa più a nessuno. In modi molto diversi: dal populismo più bieco del “tanto sono tutti ladri”, alla costernazione di chi va a votare scheda bianca perché si sente un orfano politico, e preferisce continuare a vivere come tale che scegliere tra le famiglie di affidamento disponibili.
1979: elezioni europee. Vota l’85,54% degli italiani. 1984: l’82,47. I989, l’81,07%. Diviene poi il 73,60% (1994) il 69,76% nel 1999, e dal 2000 in poi si scende di quota in quota come gruppi di amici estivi a settembre: dopo un picco del 71.72% del 2004, votano il 66,47% nel 2009, il 57,22% nel 2014, il 54,50% nel 2019 per poi scendere al 48,31% odierno.
È un fenomeno che non riguarda soltanto le elezioni europee: i non votanti alla Camera (dati Eligendo) sono passati da 7.699.104 nel 2006 a 16.608.299 nel 2022. A fronte di questo incremento (il numero di chi non ha notato è più che raddoppiato), il numero di coloro che si sono recati effettivamente alle urne e hanno lasciato una scheda non valida è rimasto sostanzialmente stabile: 1.145.154 nel 2006 e 1.315.461 nel 2022.
Stessa identica dinamica per le elezioni del Senato: 6.969.788 non votanti nel 2006 contro i 16.360.110 del 2022, e 1.100.064 schede non valide nel 2006 contro 1.281.165 schede non valide nel 2022.
Se per alcuni questa può anche essere interpretata come un’opportunità, ma soltanto se si ha un’immaginazione povera. I maliziosi, ad esempio, identificano in questa condizione una convenienza per i partiti politici, che si trovano così a dover convincere una parte minore dell’elettorato. Condizione vera se si limita ad osservare i giorni piuttosto che gli anni, perché la vicenda del M5S insegna che se c’è qualcuno che riesca a raccogliere i distanti può avere una grande influenza su tutti gli equilibri parlamentari. Altri, invece, che si scagliano contro il suffragio universale, possono vedere in questa distanza un allontanamento naturale del “popolo” dalla gestione della vita pubblica, a beneficio di coloro che, coprendo posizioni elitarie, possono così avere un ruolo più importante di quell’1 vale 1 che per molti è sbagliato.
Anche qui, si tratta di una dimensione miope, perché non è possibile stabilire con certezza che non siano proprio coloro che hanno opinioni più informate a distaccarsi dal fenomeno politico.
La condizione reale è però questa: abbiamo assistito negli ultimi decenni ad un lento cedimento della dimensione contenutistica del dibattito pubblico e politico. Abbiamo ridotto le informazioni e le conoscenze e le strategie di governo e le visioni, che erano gli argomenti su cui si dibatteva tanto nel passato. Abbiamo piuttosto privilegiato una politica fatta nei talk-show, durante i quali con la scusa di informare le persone, non si fa altro che cercare di ottenere la simpatia di una parte o di un’altra della cittadinanza, a prescindere dai contenuti.
Come interpretare diversamente dibattiti durante i quali due partiti politici presentano dati e statistiche completamente differenti sullo stesso fenomeno?
La nostra democrazia però, ha bisogno del suo prefisso. Ha bisogno del demos per essere realmente tale. Perché una democrazia con pochi elettori è una democrazia monca. Orba. Malata.
E se la politica non ha interesse ad avvicinare nuovamente le persone, ci deve essere qualche altro ente che se ne preoccupi. Non è soltanto questione di preferenza: è questione di formare degli esseri umani che siano in grado di scegliere in modo informato quale sia il proprio punto di vista su elementi concreti: la guerra in Ucraina è corretta? Va supportata con le armi? Dai più importanza alla creazione di asili nido o alla creazione di nuovi musei? Per te è più importante che ci sia una politica di bilancio meno rigida o che ci sia maggiore crescita economica?
Non sono temi che formano elettori, sono temi che formano cittadini: e l’Italia ha già un problema con gli abitanti per poter davvero vedere decimare anche coloro che tra tali abitanti sappiano davvero quale ruolo rivestono nella propria collettività di riferimento.
O dobbiamo invece immaginare un partito “Scheda Bianca”, per il quale conteggiare gli stessi seggi come per le altre forze politiche e veder destinare i minori esborsi derivanti dal minor numero di parlamentari a cause sociali o di benessere.