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Perché la regionalizzazione può far bene alla salute. La versione di Sergio Dompé

Negli ultimi trent’anni il farmaceutico italiano ha parzialmente recuperato il prestigio perduto a causa di politiche miopi. L’Europa? Rivaluti le proprie strategie per mantenere la competitività. L’analisi di Sergio Dompé

L’industria farmaceutica italiana è storicamente un’eccellenza a livello mondiale, ma negli ultimi anni ha affrontato numerose sfide. La situazione attuale del settore riflette un panorama complesso, caratterizzato da difficoltà e successi. Il confronto con il sistema nordamericano e l’ascesa dell’Asia, in particolare della Cina, impone all’Europa di ripensare le proprie strategie per mantenere la competitività. All’interno di questo contesto, l’Italia ha visto rinascere alcune realtà produttive che hanno incrementato significativamente l’export, pur confrontandosi con la necessità di innovare e adattarsi ai cambiamenti globali. Il futuro del settore dipende dalla capacità di implementare politiche efficaci e dalla volontà di guardare oltre gli schemi tradizionali. Ne abbiamo parlato con Sergio Dompé, presidente esecutivo di Dompé farmaceutici, azienda leader nel comparto biofarmaceutico a capitale italiano.

Farmaceutico Made in Italy, qual è la situazione reale? Siamo ancora un’eccellenza nel settore o abbiamo perso terreno negli ultimi anni?

La situazione dell’industria farmaceutica italiana si può analizzare da due prospettive: una assoluta e una relativa. Da quella relativa, osserviamo che negli ultimi trent’anni l’industria farmaceutica italiana ha parzialmente recuperato il prestigio perduto a causa di politiche miopi, decisioni industriali errate e una comunicazione inefficace. In passato, importanti aziende come Farmitalia e Carlo Erba sono state vendute per fare cassa da chi mancava di una visione strategica. Nonostante molti considerassero l’industria farmaceutica italiana ormai morta, dalle sue ceneri è rinata una realtà produttiva che ha portato l’export dal 15-16% a oltre il 70% attuale. Oggi, ci sono almeno venti aziende italiane con una strategia competitiva internazionale, senza contare le numerose start-up, e queste realtà hanno grandi potenzialità di sviluppo. Questa è la parte positiva.

E dalla prospettiva assoluta?

Purtroppo, è sempre più difficile competere da soli. Il sistema nordamericano rappresenta il vertice dell’innovazione e dello sviluppo del mercato. Anche l’Asia, in particolare la Cina, ha fatto progressi straordinari. Quando si analizzano le citazioni dei lavori scientifici, ci si aspetterebbe che l’Italia e l’Europa fossero in una posizione di rilievo, ma le citazioni maggiori provengono dal Nord America e, in seconda posizione, dalla Cina. Negli ultimi trent’anni, l’Europa ha subito una significativa riduzione delle aziende italiane nel settore farmaceutico.

Come vede il futuro del settore farmaceutico europeo?

Enrico Letta ha detto: “Gli Usa innovano, la Cina copia e l’Europa regolamenta”. Sia il documento di Enrico Letta sia quello di Mario Draghi sono molto chiari su ciò che bisognerebbe fare. Tuttavia, il problema è vedere quali reali strumenti l’Europa abbia a disposizione per essere unita e competitiva. La composizione attuale del governo europeo tende a difendere lo status quo, e questo atteggiamento è pericoloso in un mondo che cambia rapidamente. La mancanza di implementazione delle raccomandazioni proposte rende la situazione ancora più preoccupante.

Cosa possiamo fare, quindi, per non restare schiacciati tra le due potenze Cina e Stati Uniti nel comparto?

Dovremmo lavorare per costruire un’Europa con vere strategie di medio-lungo periodo, che sappia mantenerle e che riesca a far uscire la salute, o almeno una parte di essa, dal capitolo delle spese per farla entrare negli investimenti. Questi investimenti, seppur con criteri diversi, devono comunque essere contabilizzati. È essenziale che l’Europa, a livello centrale o tramite i singoli Paesi, abbia i mezzi necessari per l’implementazione delle strategie. L’approccio europeo, sbilanciato verso la regolamentazione, rischia di farci restare indietro.

Torniamo indietro di quattro anni. Di fronte al Covid eravamo impreparati. Ci siamo detti che avremmo imparato. Se domani ci fosse una nuova pandemia di un nuovo Covid-19, avremmo una supply chain più solida o saremmo esposti agli stessi problemi di quattro anni fa?

Anche qui ci sono aspetti positivi e negativi. Positivamente, abbiamo dimostrato una capacità organizzativa a livello mondiale, con gli Stati Uniti in testa. La scienza ha fatto grandi progressi, e gli approcci alla produzione di vaccini e farmaci in caso di pandemia sono sicuramente migliorati rispetto al passato.

Quali sono, invece, gli aspetti negativi?

Purtroppo, dal punto di vista pratico, le aspettative che si erano create, specialmente in seguito ai valori espressi dall’ex premier Mario Draghi nel messaggio di chiusura del G20 del 2021 a Roma, dove affermava “Health is Wealth”, non si sono concretizzate. In Italia, e anche negli altri Paesi europei, non c’è stata quell’attenzione che ci si aspettava. Oggi, l’attenzione è legittimamente e doverosamente rivolta ai costi, ma questa miopia rischia di non far produrre nel nostro Paese farmaci a basso costo. Se si continua a strozzare il livello di rimborso, c’è il rischio di perdere la filiera produttiva italiana, rinunciando a una risorsa strategica ben definita.

Sta per insediarsi la nuova legislatura europea. Quali consigli darebbe?

Non chiudersi in difesa dei propri interessi, ma cercare di capire cosa possiamo fare per tornare ad essere realmente competitivi a livello internazionale. Abbiamo ancora delle carte importanti da giocare. L’Europa rimane il luogo dove si vive meglio al mondo, ricco di cultura e bellezza, ma stiamo continuando a dilapidare e spendere risparmi. E invece abbiamo bisogno di reagire e la formazione della nuova Commissione e del nuovo Governo europeo deve rispondere alle sfide attuali. Da imprenditore, guardo ai fatti e cerco di offrire suggerimenti pratici. Leggendo la realtà, se c’è uno spostamento verso un cambiamento, giusto o sbagliato che sia, bisogna reagire con nuove composizioni e idee, con il coraggio di osare e andare oltre gli schemi attuali. Se restiamo ancorati ai nostri vecchi schemi, rischiamo di essere ulteriormente emarginati e alla fine nessuno ci chiederà neanche la nostra opinione.

Un consiglio per i nostri politici, sul piano nazionale?

Sono ancora in attesa, poiché è necessario vedere come evolveranno le cose prima di esprimere giudizi definitivi. Mi sembra che il ministro Schillaci stia facendo un buon lavoro: ascolta, decide ed è equilibrato. Contrariamente al pensiero di molti, compreso il mio inizialmente, la regionalizzazione, se utilizzata e scandita da linee guida precise, può portare tutte le Regioni a essere più strategiche e meno continuative su linee che hanno dimostrato di non essere sempre efficaci. È necessario dare più libertà alle Regioni, soprattutto recuperando spazi sulla prevenzione. Ora abbiamo due grandi problemi da affrontare.

Quali?

La continuità territoriale e la gestione delle emergenze. È fondamentale organizzare meglio il territorio per evitare i colli di bottiglia nei pronto soccorso degli ospedali. Inoltre, dobbiamo garantire un accesso più tempestivo e sostenibile all’innovazione per i pazienti.

E di cosa possiamo essere orgogliosi?

Dei punti forti del nostro sistema, che è fondamentale riconoscere. L’elemento di maggior pregio è la solidarietà di fronte alla malattia: il fatto che tutti possano curarsi mi rende orgoglioso di essere cittadino italiano ed europeo. Questo è anche un elemento di grande coesione sociale.

L’ipotesi di inserire la spesa farmaceutica come investimento anziché come spesa corrente è proposta da molti come soluzione. Non è stata adottata perché troppo complessa, non sostenibile o per mancanza di un governo abbastanza duraturo da implementarla?

Considerare la spesa farmaceutica tout court come investimento può apparire strumentale. Piuttosto, dovremmo considerare la salute come un investimento, puntare maggiormente sulla prevenzione e trovare modelli applicabili alla realtà che incentivino comportamenti virtuosi da parte di Regioni, cittadini e industrie. Questi sono veri investimenti.

Come si potrebbe migliorare la gestione della spesa?

Dovremmo trovare un modo per arricchire la lettura della spesa, distinguendo tra ciò che spendiamo oggi e che ci darà un vantaggio misurabile domani, e ciò che spendiamo perché è necessario farlo, ma senza un vantaggio futuro immediato. In questo modo, ci sarebbe una parte di spesa necessaria, giusta e doverosa, senza distinzioni di serie A o B.



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