Si può stare con le élite o si può stare con il popolo. L’unico esercizio impossibile è avere il piede in due staffe. Essere portatori di quella concezione strabica della politica, secondo la quale si può dire o essere tutto e il contrario di tutto. Quel tempo è finito. Si è esaurito sulla risacca di un internazionalismo che le élite hanno praticato nel loro prevalente se non esclusivo interesse. Alimentando, alla fine, un risentimento sovranista. La riflessione di Polillo
Come è potuto succedere? Questa è la domanda che rimbalza al di qua ed al di là dell’Atlantico. Dove la vittoria di Donald Trump seppur non certa, appare probabile. Ma è soprattutto l’Europa il “ventre molle” che ha reso possibile il “grande cambiamento”. E in Europa, l’Italia prima, la Francia poi. Anche se nelle elezioni europee appena concluse, la Germania con la vittoria di AfD (Alternative für Deutschland) non aveva voluto essere da meno. Se fenomeni di questa portata capitano nelle latitudini più diverse, vi dovrà pur essere un legame. Una causa comune.
Una liaison, per dirla con il linguaggio di Emmanuel Macron: il grande sconfitto. E allora lo sforzo è soprattutto quello di capire. Guardando sotto la pelle della globalizzazione per individuare i vincenti e gli sconfitti. E la reazione, tutta politica, di questi ultimi. A disposizione dei quali non c’era altro che il “voto contro” nella cabina elettorale. Analisi da approfondire. Anche se almeno una cosa è evidente. Il vincitore di questa tornata si chiama Vladimir Putin. Mettendo in crisi la Francia che è l’unica potenza nucleare del Continente, dopo Brexit, il peso della Nato ne esce, per lo meno, ridimensionato. Ed è questo uno strano destino.
Considerata la vecchia supponenza dell’asse franco – tedesco. Una gestione quasi fallimentare se guardiamo oltre i confini del Vecchio Continente. Tra i grandi territori – che siano più o meno “aree monetarie ottimali” – l’Europa è quella che soffre di più. Nel segnarne il progressivo declino, l’Italia aveva fatto da capofila, pagando uno dei prezzi più elevati alla Global Financial Crisis. Quello shock simmetrico che dagli Stati Uniti, a seguito del fallimento della Lehman Brothers, nel 2007, si era diffuso, come una pandemia, in tutto l’Occidente.
Toccando il Medio Oriente con le “primavere arabe” e la stessa Federazione Russa, incapace di gestire una crisi importata da lontano. La Grecia, prima, l’Italia poi, ad un passo dal contagio, avevano reagito secondo i canoni dell’economia classica. Una stretta fiscale violenta, che nel Bel Paese aveva portato alla distruzione di circa il 25 per cento del valore aggiunto prodotto in precedenza. Il tutto con la motivazione che bisognava evitare il baratro, il default. Che tuttavia il grande pubblico non riusciva a vedere.
Essendo esso percepibile solo con il linguaggio delle élite: dei grandi commis d’etat, dei banchieri carichi di stock option o dei capitani d’industria pronti a scaricare i loro debiti nel grande calderone degli incagli bancari dei non performing loans. La gente comune, invece, tirava la cinta. Se era riuscita a conservare il posto di lavoro, subiva la pressione dei propri figli dall’incerto avvenire. Se aveva una casa di proprietà vedeva il capitale speso sottoposto ad una continua erosione, a causa della caduta dei prezzi di mercato. Se non l’aveva, sapeva che le banche non avrebbero concesso i mutui necessari ad un prezzo ragionevole, per le proprie disastrate finanze. Insomma due classi ben distinte: chi nella crisi riusciva comunque a nuotare. Un minoranza.
E chi invece ingrossava l’esercito di riserva, dei disoccupati, sottoccupati. Comunque di povera gente sempre in bilico sull’orlo di una crisi di nervi. Non ci voleva molto per scatenare la protesta. Ed infatti bastò un semplice “vaffa”. Che si univa tuttavia alle promesse mirabolanti: il salario universale, la sconfitta della povertà, i mille bonus concessi a destra e manca. Gli altri Paesi europei derubricarono il fenomeno a semplice caso italiano. Il solito ineffabile, inaffidabile Bel Paese. Nessuna riflessione seria sulle cause di quel terremoto che, ingenuamente, si riteneva fosse esclusiva di un’atipica realtà.
C’è voluto il tempo necessario, ma alla fine la dura realtà delle cose ha finito per imporsi. La globalizzazione, così come è stata gestita, è stata tutt’altro che un “pranzo di gala”. Ha avuto, al contrario, la forza di un bulldozer che ha cambiato nel profondo i vecchi equilibri del periodo in cui dominava la “guerra fredda”. In principio si pensava di concedere alle future economie emergenti lo spazio necessario per crescere. Ne avrebbero tratto vantaggio anche le grandi metropoli occidentali. Lo schema teorico di riferimento era quello delle “corn laws” del tempo di David Ricardo.
Le importazioni di beni primari ad un prezzo ridotto avrebbero fatto diminuire il costo di riproduzione della forza lavoro. E contribuito a far crescere il surplus prodotto nei Paesi più industrializzati. Cosa che in parte è anche avvenuta. Ma solo a favore di alcuni, come la Germania. Acquistava prodotti energetici a basso costo dalla Russia e vendeva beni capitali o prodotti di lusso alla Cina.
La quale, a sua volta, grazie a quelle importazioni, esportava prodotti più maturi in ogni angolo del Pianeta. Sullo sfondo il modello giapponese. Copiare i prodotti stranieri, modificarli in laboratorio e poi, una volta acquisito il know-how, riprodurli su scala allargata. Semplice come bere un bicchier d’acqua. Ma solo in Paesi dal comando politico centralizzato in grado di dettare regole di carattere generale e farle rispettare. Che poi quei costi potessero essere abbattuti anche grazie alla mancanza di remore: per il tasso di sfruttamento della mano d’opera, per il mancato rispetto dell’ambiente. E mille altre deroghe.
Era cosa di normale amministrazione, vista l’impotenza degli organismi internazionali di controllo. Leggesi: WTO. Sarebbe ipocrita non riconoscere che l’Europa nel suo complesso non trovasse, in questo schema, il suo tornaconto. A riconoscerlo la stessa Commissione europea (COM(2023)376 final, pag.9) quando è costretta a riconoscere che, nel mercato unico, “gli investimenti privati sono ostacolati dalla mancanza di un vero e proprio mercato dei capitali e di un’Unione bancaria a pieno titolo.
Ciò impedisce di convogliare nel finanziamento della crescita futura l’ingente risparmio della UE (l’incidenza del risparmio interno rispetto agli investimenti interni nell’UE è stata mediamente pari a quasi 300 miliardi di euro negli ultimi dieci anni).” Che fine hanno fatto queste risorse? Un totale di oltre 3.000 miliardi di euro. Potevano essere utilizzate in Europa per accrescere il benessere dei cittadini, contrastare il crescente impoverimento dei ceti medi, fornire nuovi servizi di welfare. E via dicendo.
E invece la semplice accumulazione privata, contenibile da adeguate regole fiscali, le ha utilizzate a proprio prevalente vantaggio. Come? Investendo dove il ritorno, seppur di breve periodo, era massimo. Dove i guadagni di capitale erano i più attrattivi. Dove gli indici di borsa presentavano le performance migliori. Vale a dire fuori dai vecchi confini europei. Sebbene tutto ciò contribuisse ad alimentare un processo cumulativo destinato soprattutto a favorire il Re di Prussia.
Secondo le stesse valutazioni della Commissione europea (COM(2021)750 final) nel 2050, il peso della Cina sull’economia mondiale sarà pari al 20,4 per cento, contro quello degli USA fermo al 14,5 e quello dell’UE all’11,3 per cento. Durante il periodo della “guerra fredda” il peso della congiunta presenza euro americana era stato superiore al 40 per cento. Quanto di questo cambiamento si deve alla forza intrinseca di Pechino e quanto al semplice trasferimento di risorse da parte di un Occidente completamente perso in una vocazione mercantilista? È il libero mercato, bellezza!: dicono i sapienti.
Pienamente d’accordo. Ma poi non lamentatevi se in Francia si vota per il Rassemblement National o in Italia per Fratelli d’Italia o negli States per Donald Trump. Si può stare con le élite o si può stare con il popolo. L’unico esercizio impossibile è avere il piede in due staffe. Essere portatori di quella concezione strabica della politica, secondo la quale si può dire o essere tutto e il contrario di tutto. Quel tempo è finito. Si è esaurito sulla risacca di un internazionalismo che le élite hanno praticato nel loro prevalente se non esclusivo interesse. Alimentando, alla fine, un risentimento sovranista.