Skip to main content

Le lezioni da trarre in un anno elettorale. Scrive l’amb. Castellaneta

Il Regno Unito ha visto una storica sconfitta dei Tories, nonostante i successi del premier Sunak. In Francia, Macron affronta una situazione tesa con il Rassemblement National. Negli Stati Uniti, Biden rischia la sconfitta nonostante i risultati economici positivi. In Iran, il sistema teocratico mantiene lo status quo. Questi esempi evidenziano la sfida di combinare buona politica e comunicazione efficace, senza cadere vittime di manipolazioni estremiste. L’analisi dell’ambasciatore Giovanni Castellaneta

Il 2024 è davvero un anno epocale per la quantità di competizioni elettorali che si svolgono in tutto il mondo: sono oltre due miliardi le persone chiamate alle urne in decine di Paesi, in una sorta di check-up politico a livello globale che potrebbe portare (e anzi sta già portando) con sé cambiamenti di vasta portata. Come stanno dimostrando, del resto, le tornate elettorali che si stanno svolgendo in questi giorni e che consentono anche di effettuare alcune considerazioni sullo stato di salute delle nostre democrazie occidentali e sull’impatto che hanno le elezioni nella società odierna dove la comunicazione ha assunto un ruolo pervasivo e molto diverso rispetto a quello giocato fino a solo pochi anni fa.

Quanto accaduto giovedì in Regno Unito è un caso emblematico. La sconfitta dei Tories era stata largamente annunciata, e probabilmente era anche fisiologica dopo 14 anni ininterrotti al potere in cui era successo di tutto, dalla Brexit alla pandemia a vari scandali che avevano contribuito a rovinare la reputazione del partito di governo. Eppure, sembra che l’ormai ex premier Rishi Sunak abbia pagato in maniera eccessiva – e anche immeritata – per colpe non sue: la sconfitta storica dei Tories non è infatti dovuta alla sua cattiva performance di governo, quanto agli errori e alle leggerezze di chi lo ha preceduto, a partire da David Cameron che condannò sconsideratamente il Paese a compiere un salto nel buio fuori dall’Unione europea, fino a Liz Truss che cercò di far passare una legge di bilancio decisamente ardita e priva di coperture finanziarie. Sunak ha preso le redini di un Regno Unito quasi alla deriva e ha saputo riagganciarla a ormeggi più saldi, controllando l’inflazione e riportando l’economia a crescere. Eppure, tutto questo non è bastato agli occhi degli elettori, che hanno evidentemente preferito l’alternativa Labour dopo anni di scommesse perse e scandali evitabili.

Una lezione anche per la Francia, che si appresta a votare per il secondo turno delle elezioni legislative? Del resto, Emmanuel Macron era stato accolto al potere come un uomo nuovo, in grado di mettere da parte la vecchia politica grazie alla sua moderazione e competenza. Eppure, sembra che per fermare l’avanzata del Rassemblement National, l’unica arma efficace potesse essere il fronte di desistenza composto da quasi tutti gli altri partiti. Ora, il rischio è quello che la coabitazione tra Macron (all’Eliseo) e Jordan Bardella (al Matignon) non faccia altro che aumentare ulteriormente la tensione sociale all’interno del Paese e il senso di rivalsa da parte della destra di Marine Le Pen che, trovatasi la strada sbarrata da questo biscotto elettorale, potrebbe trovarla invece del tutto spianata alle prossime elezioni presidenziali. Da Parigi, insomma, ci arriva un altro esempio di come la buona politica, al netto di errori certamente evitabili, non produca i risultati sperati in termini elettorali se cade vittima di una comunicazione ostile e spesso strumentale.

Negli Stati Uniti rischia di succedere lo stesso tra pochi mesi: Joe Biden, nonostante ottimi risultati in campo economico, è sempre più vicino alla sconfitta succube delle fake news di Donald Trump oltre che della sua stessa fragilità, ormai conclamata dopo il disastroso dibattito della scorsa settimana.

Solo in Iran, dove venerdì si è svolto il secondo turno delle Presidenziali, sembra reggere lo status quo, anche se in questo caso le condizioni sono ben diverse: si tratta infatti di un sistema politico peculiare e la bassa affluenza alle urne è indice della disaffezione di gran parte della popolazione verso un regime teocratico che ha permeato sempre di più negli ultimi anni la vita pubblica del paese. La vittoria del candidato cosiddetto riformatore accontenta tutti e non intralcia il processo di successione dell’ayatollah, che rimane unico detentore del potere.

Con un filo di amarezza, occorre dunque constatare che agire per il bene del Paese che si è chiamati a governare al giorno d’oggi paga sempre meno. Del resto, per i riformisti moderati la sconfitta è sempre l’esito più probabile, rimanendo schiacciati tra i reazionari da una parte e i radicali dall’altra. È quindi evidente l’urgenza di pensare a un modo di fare politica che riesca a combinare il perseguimento dell’interesse generale con una comunicazione efficace che non cada ostaggio delle manipolazioni e delle semplificazioni messe in atto dalle fazioni più estremiste o ancora peggio da Stati e organizzazioni nemiche.

×

Iscriviti alla newsletter