La politica estera di Trump in caso di vittoria non sarebbe troppo diversa da quella di Biden, se non nei toni che invece certamente cambierebbero. Sul rapporto con la Russia, il sostegno a Kyiv, lo sguardo verso la Cina i rischi non sarebbero così catastrofici come alcuni potrebbero pensare. Il commento del generale Carlo Jean
Soprattutto dopo l’attentato del 14 luglio, Donald Trump ha visto aumentare ancora le sue probabilità di essere eletto presidente degli Usa. Tutti devono prenderne atto. Comunque vada, è controproducente considerare Trump il “male assoluto” e una minaccia da contrastare. A parer mio non lo è. Lo dimostrano talune decisioni positive prese durante il suo primo mandato. Le sottolineeremo in quest’articolo, trascurando quelle negative, relative peraltro più ai suoi toni che ai suoi atti.
Molti temono la seconda presidenza potrebbe avere sui legami transatlantici e sugli attuali assetti geopolitici ed economici mondiali. Secondo questi commentatori, Trump comprometterebbe la Nato e, insieme ad essa, la sicurezza europea. Abbandonerebbe l’Ucraina al suo destino, lasciandola conquistare da Mosca o, comunque, dilazionandone l’assorbimento nel Russkiy Mir, non tutelando un’eventuale tregua con garanzie di sicurezza credibili, ossia con l’“ombrello della Nato”. Potrebbe inoltre innescare una disastrosa guerra commerciale fra gli Usa e l’Ue, che indebolirebbe entrambi. Ciò accelererebbe il declino dei Paesi liberal-democratici rispetto alle autocrazie, e dell’Occidente rispetto al Sud Globale, che sarebbe sempre più a leadership cinese.
La “Grande Russia” può essere tale solo se la sua dipendenza economica da Pechino non si trasformerà in dipendenza anche geopolitica, facendola diventare una sorta di colonia cinese. Ormai la Russia non può più diventare alleata dell’Occidente, come forse sognava Trump nella sua prima presidenza. In assenza della Nato e quindi dell’impegno Usa in Europa, l’Ue – che si è dimostrata incapace di dare vita a una difesa comune europea e che comunque non dispone di un deterrente nucleare proprio – rischia di essere costantemente ricattata da Mosca e, in ambito economico, anche dalla Cina, e di essere assorbita in un confronto globale con gli Usa secondo i meccanismi della “Trappola di Tucidide” suggeriti dal prof. Allison.
Tali fosche previsioni, pur ampiamente condivise, si basano sull’assunto che Trump sia effettivamente in grado di fare tutto quello che sta promettendo in campagna elettorale, e che viene spesso amplificato nei suoi aspetti meno credibili dai suoi avversari politici (in verità più in Europa che negli Usa). Molti pensano che per Trump MAGA (Make America Great Again o Make America First) significhi anche Make America Alone, cioè implichi l’“isolazionismo” (o la strategia “emisferica”) che ha spesso dominato la politica estera Usa, ad esempio tra la prima guerra mondiale e Pearl Harbor.
A parer mio non è questo il caso. Alla realizzazione di tale programma si oppongono i mutamenti subiti negli ultimi anni dalla geopolitica mondiale e dalla tecnologia. L’isolazionismo non è più un’opzione percorribile, e un pragmatico uomo d’affari come Trump sa fare bene i conti. I toni che usa sono funzionali alla ricerca del consenso della consistente e crescente parte degli elettori americani stanchi di garantire, senza ritorni adeguati, la sicurezza di alleati che non fanno la propria parte ma che, anzi, ne approfittano per fare affari con i nemici degli Usa, come la Cina, la Russia e l’Iran, facendo concorrenza sleale all’economia americana. Questa fetta dell’elettorato mal sopporta anche che la definizione degli interessi nazionali americani venga effettuata in termini di quei princìpi teorici – quali la .difesa della democrazia e dei diritti umani – tanto usati da Obama e da Biden.
Trump è un ruvido uomo d’affari. È convinto che nessun negoziato possa avere successo se non si dispone della forza necessaria per imporre le proprie condizioni. Le sue convinzioni al riguardo emergono chiaramente dal saggio “The Art of the Deal”. Sa accettare compromessi e adattare la sua strategia alla realtà, come ha fatto per la Corea del Nord e con i Talebani. Conosce i limiti dell’Arms Control e non è disposto ad accettarne le ipocrisie quando non gli conviene, sfidando anche gli umori dell’opinione pubblica interna e internazionale.
Trump non è nemmeno avverso all’uso effettivo o virtuale della forza. Ha bombardato la Siria nel 2017. È stato il primo a rifornire l’Ucraina di armi letali sempre nel 2017. Ha schierato forze americane sui confini orientali della Nato nell’operazione di “reassurance” dei Paesi est-europei. Non bisogna esagerare le sue intese con Putin di creare contro la Cina una specie di “Triangolo di Kissinger”. Esse erano peraltro simili a quelle delineate per l’Ue da Macron nel 2019, nel suo articolo sull’Economist sulla “morte cerebrale” della Nato. Entrambe sono comunque superate dal mutamento della situazione geopolitica, dalla sudditanza economica di Mosca da Pechino e dalle connessioni sempre più evidenti tra un’eventuale vittoria russa in Ucraina – possibile solo qualora il sostegno occidentale a Kiev si interrompesse – e un’aggressione cinese a Taiwan.
La situazione è cambiata. Sono rinati la rivalità e il rischio di guerra totale fra le grandi potenze, cioè fra gli Usa e la Cina. Il mondo è diventato più interdipendente e la Cina è divenuta un rivale anche per la Nato, mentre prima era solo una rivale commerciale per l’Ue. Anche la necessità di lavorare attivamente per la pace – cioè per mantenere stabile la deterrenza, non con la retorica delle manifestazioni pacifiste – è stata chiaramente recepita nel Summit Nato di Washington. Lo stesso dicasi per la sopravvivenza dell’Ucraina come Stato e come Nazione, anche se l’Occidente continuerà a fornire a Kyiv solo i mezzi per resistere e continuare a combattere, non per ottenere la vittoria. Per quest’ultima, del resto, manca anche una strategia: infatti non si è formulata una definizione condivisa di vittoria, i cui parametri sono stati lasciati agli ucraini. Questi ultimi l’hanno finora definita in termini irrealistici, non commensurati ai mezzi a loro disposizione.
Vedremo che cosa farà Trump. L’idea di far cessare i combattimenti in Ucraina in 24 ore è già stata corretta, specificando che in 24 ore si dovranno iniziare i negoziati, non attuare una tregua. Tuttavia, Trump non potrà “tirare la corda” oltre un certo limite, non solo per “salvare la faccia” e mantenere la credibilità degli Usa nel mondo, ma soprattutto per i legami che la questione ucraina ha con quella di Taiwan, più importante per gli Usa, che tuttavia saranno preparati a difenderla solo tra un paio d’anni. In sostanza, Trump continuerà a sostenere Kyiv (e la Nato) per guadagnare tempo, e la sua politica non sarà molto diversa da quella di Biden nella sostanza – anche se non nei toni. Gli alleati degli Usa, e soprattutto quelli che non avranno capito la necessità di collaborare con gli Usa anziché vivere alle loro spalle, dovranno prepararsi a essere oggetto di strapazzate e rimbrotti, che verosimilmente subiranno in silenzio, per non peggiorare la situazione e ben sapendo quanto il sostegno degli Usa sia esiziale sia per la sicurezza che per la stessa unità dell’Ue. La guerra in Ucraina continuerà ancora a lungo, a meno che Trump non mobiliti la potenza Usa contro Mosca. Quest’ultima ipotesi può sembrare bizzarra, ma non va scartata. Lo stesso Putin sembra considerarla possibile, quando si dice preoccupato dell’imprevedibilità di Trump. Non lo considera un pazzo furioso: senza dubbio ha letto e capito “The Art of the Deal”.