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Quella mattina dell’undici settembre

L’undici settembre 2001 era un martedì. Ero in ufficio, intento a studiare il fascicolo di un processo. Al terzo squillo del telefono, risposi infastidito: era un amico simpatico, ma avrei preferito che non interrompesse il mio lavoro. Lui non fece caso al tono irritato della mia voce: “Accendi la televisione. Sta succedendo una cosa spaventosa”, mi strillò nella cornetta. Il mio fastidio iniziale si volse in preoccupazione. All’epoca, negli uffici della procura di Milano, c’era un solo televisore nella stanza del procuratore capo. Bussai. C’erano già altri colleghi. Raiuno stava rimandando in onda immagini del network americano Cnn: un aereo volava a bassa quota fra i grattacieli di New York e poi penetrava, esplodendo, dentro la rigida sagoma di una delle Twin Towers. Tutti noi vedevamo senza dubbio la scena trasmessa in tv, ma non potevamo credere a ciò che stavamo vedendo.
 
Va anche detto che, dopo lo shock dell’opinione pubblica mondiale e dopo l’overdose di articoli e trasmissioni tv, lentamente ma inesorabilmente, nonostante l’orrore e lo sgomento, per la gente normale l’esistenza in qualche modo è andata avanti. Certo, ci sono stati altri shock e altro orrore. E anche il nostro continente, l’Europa, è stato straziato dagli attentati a Madrid, nel 2004, e a Londra, nel 2005. Ma ogni volta, elaborati il lutto e l’angoscia, la maggior parte dei cittadini di quei Paesi ha ripreso la routine delle proprie esistenze. Il terrore non ha vinto. La vita è tornata alla normalità, più o meno per tutti. Però non per tutti. Per me, e per molti altri, da dieci anni lo stato d’allerta è divenuto una condizione quotidiana. Fra questi magistrati, investigatori, agenti e funzionari d’intelligence. Persone che indagano ed altre che analizzano ogni cosa, dal fatto particolare allo scenario globale.
 
Ancora oggi uno spettro si aggira per il mondo, per l’Europa e, dunque, anche per l’Italia. Uno spettro che genericamente chiamiamo “terrorismo” oppure, con riferimento alla matrice ideologica o alla forma organizzativa, qaedismo o jihadismo. Ma che, in concreto, può assumere forme e strutture difficili da individuare, quando addirittura non si basa su un’unica mente, un kamikaze solitario, capace di ideare, organizzare e attuare un attentato senza alcun coinvolgimento diretto di altre cellule.
E qualche mese fa, una nuova telefonata – stavolta non di pomeriggio, ma quasi all’alba – mi è giunta nella notte fra il 1° e il 2 maggio 2011, da parte di un amico ben informato. E ancora una volta, come dieci anni prima alla televisione su un canale in lingua inglese ho ascoltato direttamente dalla voce del presidente degli Stati Uniti d’America, Barack Obama, la notizia della fine di quella che è stata probabilmente la più grande caccia all’uomo della storia. E ho appreso che la Central intelligence agency americana aveva individuato il ricercato numero uno al mondo, lo sceicco saudita Osama bin Laden, scovato e ucciso da un commando dei Navy Seals in una villa fortificata di Abbottabad, in Pakistan.
 
Così, dopo il cordoglio e la rabbia di George W. Bush, furioso per l’attacco alle Torri, ho sentito un altro presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, scegliere con cura le proprie parole di fronte a centinaia di milioni di concittadini: «Buonasera – ha esordito con tono pacato. Questa sera posso rendere noto agli americani e al mondo che gli Stati Uniti hanno condotto un’operazione in cui è stato ucciso Osama bin Laden, il leader di al Qaeda, un terrorista responsabile dell’assassinio di migliaia di uomini, donne, bambini innocenti. È stato quasi dieci anni fa che un giorno di sole di settembre è stato offuscato dal peggior attacco contro gli americani della nostra storia».
Guardando fisso nella telecamera, il presidente ha proseguito: «Le immagini del Nine Eleven sono incise nella nostra memoria nazionale – ha detto Obama. Gli aerei dirottati che squarciano un cielo sereno di settembre, le Torri Gemelle che crollano a terra, fumo nero che si eleva dal Pentagono, i rottami del volo 93 a Shanksville, in Pennsylvania, dove le gesta di cittadini eroici hanno evitato ulteriori lutti e distruzione. Eppure, sappiamo che le immagini più atroci sono state quelle che il mondo non ha visto. Le sedie vuote a cena. I bambini costretti a crescere senza la loro mamma o il loro papà. Genitori che non potranno mai provare l’abbraccio dei loro bimbi. Quasi tremila cittadini ci sono stati sottratti, lasciando una voragine nei nostri cuori».
 
Ma allora forse è davvero finita? Non è finita, ho ragionato poi, perché non è fermando un capo che si cancella un’organizzazione o una volontà malvagia come quella del fanatismo omicida. A sgombrare la mia mente, offuscata dal brusco risveglio notturno, ci ha pensato ancora il presidente americano Obama: «Per oltre due decenni – ha scandito –, Osama bin Laden è stato il leader e il simbolo di al Qaeda e ha continuato a pianificare attacchi contro il nostro Paese e contro i nostri amici ed alleati. La sua morte segna il risultato più significativo ad oggi nel nostro sforzo di sconfiggere al Qaeda. Eppure, la sua morte non segna la fine del nostro sforzo. Non c’è dubbio che al Qaeda continuerà a perseguire attacchi contro di noi. Dobbiamo, e lo faremo, rimanere vigili in patria e all’estero».
 
La minaccia del terrorismo insomma non è svanita con la morte dello sceicco saudita. Le notizie riprese da agenzie di stampa internazionali che rilanciavano i proclami di vendetta di altri leader fondamentalisti me ne hanno dato purtroppo la conferma.
Chi lavora nel delicato settore della sicurezza non ha smesso neppure per un’ora di ragionare, capire, analizzare indizi, costruire collegamenti, vagliare prove. È un lavoro sul filo del rasoio, un giorno dopo l’altro, sempre nella speranza di intercettare i potenziali attentatori prima che compiano un gesto fatale. È dovere di chi ha come incarico quello di vigilare sulla sicurezza nazionale, delle nostre famiglie, dei nostri figli.


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